martedì 14 aprile 2015

Medusa Café, capitolo 12 -
Non può piovere per sempre

-Mercoledì, giorno 12-


Non finirà mai. Lucrezia non poteva pensare altrimenti. Aveva passato la notte insonne, le mancava il respiro e aveva il groppo alla gola. Ormai stava piangendo sommessamente dal giorno prima, anche se durante notte il suo lamento si era spento gradualmente. Era a causa della pioggia. Dopo dodici giorni Lucrezia aveva finalmente aperto gli occhi, e si era resa conto di essere in trappola. Dopo dodici giorni la pioggia iniziò a farsi sentire nella sua testa, come se le avesse sussurrato, ehi Lucrezia, io sono sempre stata qui. Quel sussurro l’aveva spenta, ma le lacrime continuavano a cadere senza controllo, proprio come la pioggia. Non si era mossa di un centimetro dal divanetto sul quale si era rannicchiata la sera prima. La mattina dopo alcuni di loro tra cui Cesare, Margaret e Dante si erano mossi per fare colazione, decidendo di dividersi un pacchetto di biscotti da sei. Dante l’aveva notata, mentre gli altri la ignoravano completamente. Le si avvicinò con una tazza di caffè e una metà del suo biscotto alla vaniglia. Le parole consolatorie dell’uomo le scivolarono addosso: aveva la nausea e per qualche motivo sapeva che se Dante si ritrovava costretto a dividere un biscotto con lei era soltanto per colpa sua e di Cicerone. Dante era una brava persona, mentre una persona disgustosa come lei doveva almeno avere la decenza di farsi contorcere le interiora e corrodere lo stomaco dagli acidi per ripagare anche soltanto il gesto di donare un biscotto già morso. Infatti Lucrezia rifiutò la colazione rannicchiandosi nuovamente sul divanetto, come se volesse chiudersi il più possibile in un immaginario involucro protettivo. Che si fotta da sola, ha mangiato abbastanza a nostre spese, disse qualcuno. Poco contava chi fosse stato, non era forse la verità?


Non finirà mai, tutti vivono con la speranza che finisca, ma perché dovrebbe? Questo bar sarà la nostra tomba. Vorrei soltanto sparire adesso, vorrei non guastare la vista a queste persone. Ormai il mio corpo non ha più un valore, come tutto il resto dopotutto.


Cicerone si lamentò e si dimenò continuativamente per ore sulla sedia alla quale l’avevano legato. Lo faceva a fasi alterne, anche perché, quando iniziava ad essere insostenibile, Marley gli si avvicinava e lo intimidiva. Ad un certo punto dovettero fermarlo prima che spingesse Cicerone sotto la pioggia.
“Se non chiudi quella fogna, ti butto fuori a calci” disse Marley quasi abbaiando, “così finalmente scopriamo se la grande provvidenza ci permette di uscire da questa maledetta prigione.”
Colpì violentemente con un calcio un piede della sedia di Cicerone che cadde sul lato sinistro. Cesare, Dante e Ulisse accorsero per immobilizzare Marley.
“Marley, cristo! Devi darti una calmata, altrimenti saremo costretti a legare anche te” ringhiò Cesare. Marley si calmò e gradualmente si lasciò cadere sulle ginocchia, capo chino e braccia incrociate. Sospirava.
Disse in un filo di voce: “La cosa orribile è che probabilmente possiamo uscire, ma non potremmo mai saperlo.” Quindi indicò Cicerone e con voce tremante disse: “Lui dovrebbe uscire per primo.”
“Non dire cazzate, non possiamo più permetterci che perda la vita qualcun altro,” disse con voce calma Dante.
Lucrezia nel frattempo lottava tra la voglia di chiudere gli occhi, sperando che non si aprissero più, e la necessità di colpevolizzarsi. Quello stato la rendeva inerme. Eppure i suoi pensieri si confondevano con le parole degli altri abitanti che discutevano animatamente.


Come fa a pensare ancora una cosa del genere? Dovrebbero prendere me e Cicerone e buttarci fuori. Così non usciremo mai. Tanto varrebbe credere in Dio, come fa Maria con i suoi Pater Noster, e aspettare che smetta di piovere, ma perché dovrebbe mai? Ormai è difficile immaginare che usciremo vivi dal bar, Dante: anche Cesare non ci crede più. Adesso lui guarda Margaret in cerca di approvazione, o forse perdono. Margaret sospira e corre al piano di sopra. Adesso vedo Beth: va da Marley e lo tranquillizza con un paio di carezze sul capo. Eva non è mai stata così silenziosa, ma c’è Lancelot che le strappa un sospiro con una carezza sulla spalla. Lì fuori non c’è nessuno che mi attende, qui dentro non c’è neanche una persona che mi stima. Ho sempre creduto che in un mondo schifoso come questo le emozioni fossero inutili. Costruzioni immaginarie della nostra mente nate tra il violento scontro della paura di restare soli e la necessità di far progredire la nostra specie. Tutto finto? Vorrei solo avere il coraggio di sparire, di morire da sola, ma in realtà non ho neanche quello.


“Aiutami ad alzare questo poveraccio, Dante” disse Ulisse chinandosi per tirare su la sedia di Cicerone.
“Vi prego, datemene un po’, a voi non serve a nulla, Ulisse! Ulisse!” gridò Cicerone.
“Eppure ci deve essere un modo per capire se possiamo uscire” si soffermò a valutare Dante, “Raider non ha avuto problemi, perché mai noi dovremmo essere diversi da lui? Tanto varrebbe dare credito alle teorie di Maria a questo punto.”
Lancelot si intromise: “Lascia perdere Maria e la volontà del Signore. Raider è un cane, la radio non ha mai accennato all’effetto della pioggia sugli animali.” Si interruppe per accendere una sigaretta e offrirne una a Dante, che rifiutò gentilmente.
Dante proseguì il ragionamento dicendo: “Si potrebbe essere rifugiato qui semplicemente per non bagnarsi, ma potrebbe essere stato immune sin dal primo momento, però …”
“Però noi abbiamo avuto la certezza dal primissimo momento dell’effetto della pioggia sul corpo umano, quindi l’unica possibilità che abbiamo è quella di testarlo direttamente sulla nostra pelle” terminò Lancelot aspirando una boccata di fumo.
I due uomini fissavano fuori dalla finestra in silenzio. Il groppo alla gola di Lucrezia le impediva di dire qualunque cosa, ma comunque non le avrebbero dato ascolto. Quell’immagine le risultava strana. Dante e Lancelot. Non riusciva a comprendere il motivo, ma i due, messi vicini, stonavano, come l’uovo fritto cotto nella salsa di pomodoro. La consistenza. L’aveva sempre odiata la consistenza che ne veniva fuori, sembravano due ingredienti che non sarebbero mai potuti andare d’accordo, eppure le persone si ostinavano a metterli insieme. Un po’ come lei e il mondo.


Beth prese posto sul divanetto dove lei era rannicchiata. Sospirò.
“Lucrezia, devi mangiare qualcosa.”
Si vergognava anche di ricambiare il suo sguardo.
“Lucrezia, lo so che è uno schifo, ma non credi di realizzarlo un po’ tardi?”
Lucrezia continuava a rispondere provando a deglutire senza successo e con le mani che le coprivano il viso. Beth le prese una mano provando a spostargliela dal viso, ma lei fece resistenza.
“Lucrezia, non fare così. Si può ancora rimettere qualcosa in ordine.”
“Non lo capisci che resteremo qui dentro? La pioggia non smetterà più e moriremo di fame uno alla volta. Chi morirà prima sarà il cibo per chi resterà, come quella storia del disastro aereo sulle Ande.”
“Non dire cazzate.”
“È quello che facciamo tutti i giorni lì fuori, anche prima della pioggia.”
“Bene. Allora ti dirò questo, Lucrezia: se tu e Cicerone non aveste sperperato tutto il cibo che avevamo a disposizione, adesso non ci troveremo in questo stato di tensione.”
Calò il silenzio. Lucrezia chiuse le palpebre facendo scivolare due lacrime lungo gli zigomi, che si insinuarono lateralmente nella bocca che si era aperta per la contrazione dei muscoli facciali. Il sapore salino delle lacrime si mischiò all’acido che risaliva dallo stomaco.
“Ora non piangere, non risolvi niente così” le disse Beth prendendole la mano.
“Non ho fame, lasciami sola.”
“No Lucrezia, forse non hai capito. Tu non dai più ordini. Noi adesso parliamo, non puoi darti la colpa di tutto. Sono morte delle persone e non è stata colpa tua, lo sai questo?”
Lucrezia tacque, quindi ripensò al fatto che Adam e Madeleine erano morti il giorno prima, a distanza di ore l’uno dall’altra. Per essere precisi due persone erano state uccise, mentre lei e Cicerone se ne stavano tranquillamente a dormire, dopo aver fatto sesso tutta la notte nel modo più bestiale possibile. Quando stavano per cedere, fatto qualche tiro di coca, avevano ripreso più vigorosi di prima, finché lei non ne poté più. Provò ribrezzo per se stessa ricordando quando uno dei primi giorni da quando erano nel barprovò a sedurre Cesare nel suo ufficio. Aveva sempre voluto manipolare chi poteva farla vivere bene, e non le costava nulla inginocchiarsi. Gli uomini sono convinti, pensava Lucrezia, che il fatto che una donna si metta in ginocchio li investa di onnipotenza, ma in realtà i ruoli erano da sempre stati invertiti. La donna aveva un’arma ed era lei a ottenere onnipotenza. Lucrezia lo sapeva bene. Tuttavia, quella volta non le andò per il verso giusto. Inginocchiarsi davanti a Cesare non funzionava, infatti l’aveva cacciata risentito. Adesso provava ribrezzo per se stessa non certo per un’improvvisa scoperta di uno spirito femminista, ma per la sua malafede manifestata ogni volta che si era concessa ad un uomo per il puro scopo di comandare.  
Guardò Eva che aveva gli occhi spenti. Sembrava lobotomizzata. Tra le donne Beth era senz’altro quella più lucida. Poi le venne in mente l’uovo cotto nella salsa di pomodoro, una ricetta che sua madre amava tantissimo. Pensò a quella consistenza orribile per la quale alcune persone perdevano la testa.


Il bar e noi qui dentro. Tutti diversi. Ci alterniamo tra colpi di coltello, risse, carezze, sesso, affetto e preghiere. Siamo come quel dannato uovo nella salsa di pomodoro. Siamo capaci di ridicolizzarci a vicenda, incastrarci, ucciderci e mangiarci a vicenda. Siamo bestie, questa è la verità. Eccoli lì: l’uovo e la salsa di pomodoro.


Lo sguardo di Lucrezia era fermo su Dante e Lancelot. Beth per un secondo si voltò a guardarli per verificare cosa avesse notato la ragazza, ma non capì.
Lucrezia aveva ricominciato a piangere, ma in un filo di voce disse qualcosa che stesso lei non riuscì a comprendere con precisione.
“Cosa hai detto?”
“Lui. È anche colpa sua.”
“Di chi stai parlando?” disse Beth abbassando il tono della voce.
“Lancelot” disse Lucrezia quasi sussurrando.
Beth si soffermò con lo sguardo su Lancelot, poi ritornò su Lucrezia: “Che cosa avrebbe fatto Lancelot?”
“Mi ha aiutata.”
Beth sorrise sbuffando dell’aria dalle narici. “A me pare che foste tu e Cicerone, invece, quelli chiusi a scopare e a farvi di cocaina nello studio di Cesare. Dubito che abbiate fatto una cosa a tre” le rispose acidamente.
“No, no, no. Beth, lui mi ha aiutata. Non capisci? Le confezioni di snack aperte nella borsa di Margaret. L’abbiamo fatto per screditarla” disse tutto d’un fiato la ragazza in lacrime.
Beth spalancò gli occhi e schiuse leggermente le labbra. Istintivamente lasciò andare la mano di Lucrezia.
“Che cazzo stai dicendo?”
“Sì, te lo giuro. Lui mi ha vista di notte mentre li prendevo e mi ha voluta aiutare.”
“Tu … Voi. Ti rendi conto che Margaret è stata isolata per colpa tua? Lo sapevo. Dopotutto sei tu che hai subito preso le difese di Madeleine. E me lo dici così, senza vergogna.”
“Devi dirlo a tutti.”
Beth tacque. Il suo sguardo cambiò e divenne sprezzante.
“Sai una cosa? Vaffanculo, Lucrezia. Per colpa tua Margaret a stento mi rivolge la parola.”
Beth si alzò di scatto e prima di andare via le rivolse un’ultima battuta: “Se hai fame sai benissimo dove rifornirti. Altrimenti va’ al diavolo.” Quindi volse lo sguardo verso Lancelot. Esitò e si diresse al bagno. Marley passò davanti a Lucrezia proprio in quel secondo, e la guardò schifato.
“Neanche ti vergogni dopo quello che hai fatto finora? Continui a infastidire chi si preoccupa per te” disse allontanandosi subito dopo.


Quanto conta adesso incolpare un’altra persona? È solo un modo per sentirsi meno soli, ma in realtà qui dentro siamo tutti soli. Purtroppo l’aiuto di Dante, di Beth, di chiunque altro, non mi serve. Probabilmente neanche le mie parole servono a loro. La pioggia batte e posso vedere questo posto come sarà tra un mese, o due nel migliore dei casi. Siamo talmente incattiviti che in dodici giorni abbiamo già fatto fuori due persone. Già mi immagino la scena: Marley impazzisce e spinge Cicerone con violenza sotto la pioggia, perché la sua carne sarebbe talmente tanto malata che potrebbe solo farci vomitare le interiora e sangue a litri; io prego affinché mi facciano fare la stessa fine, ma ovviamente la mia carne non va buttata, perciò mi chiudono nello studio; di notte soffocano la vecchia nel sonno e la sera successiva siamo costretti a mangiarla per mantenerci in salute per essere cucinati a nostra volta; passano giorni e io non faccio che sentire urla e vedere una mano che fa scivolare un piatto di carne umana mal cucinata dalla fessura della porta, mi ricorda l’uovo con la salsa di pomodoro, ma non riesco a non mangiarla, quindi piango, perché non posso neanche sapere più a chi sia appartenuta; la cosa che più mi terrorizza è che io sarò il trofeo del mostro che avrà mangiato e cucinato tutti gli altri, vorrei togliermi la vita, ma mi è impossibile perché non mi hanno lasciato lame; la porta si apre e mi si para l’ombra di un uomo che non riconosco perché è controluce, è il mostro. E io sono il suo premio, un uovo fritto cotto nella salsa di pomodoro.


“Cristo santo, questa qui non sta bene!” esclamò Lancelot con preoccupazione.
Lucrezia aveva vomitato della bile che adesso colava lungo il divanetto fino a terra. Si avvicinarono Dante, Ulisse e Margaret e si diedero da fare per pulire.
“Lucrezia, devi mangiare qualcosa” disse Dante.
Gli altri lo guardarono severamente. Lucrezia pulendosi con il braccio il mento colante di bile scosse velocemente la testa. “Non ho fame.”
“Non stai bene, devi mangiare qualcosa,” disse alzandosi lo scrittore, poi ricambiò lo sguardo severo agli altri che erano intenti a pulire “anche se dovrò dividere la mia razione con te.”
Marley e Beth si erano avvicinati e il ragazzo si rivolse sarcasticamente a Dante dicendo: “Ti fidi ancora di quella lì? Stai attento che sarebbe capace di morderti una mano pur di mangiare.”
Beth gli colpì leggermente il piede per farlo smettere, poi si dedicò a studiare Lancelot, che nel frattempo era accorso da Eva che aveva iniziato a scorticarsi le mani fino a sanguinare.
“Eva, cazzo. Cosa fai? Non ti fare del male.”


Non finirà mai.

Quando la sera era ormai giunta gli abitanti del Medusa Café stavano ognuno per conto proprio, rassegnati e con poca voglia di caricarsi dei problemi degli altri. Dante e Ulisse decisero di mantenere invariate le nuove postazioni per la notte che erano state decise la notte precedente . Dante era in attesa che gli altri che sarebbero dovuti salire con lui gli aprissero la strada, ma si rese conto che Marley era scomparso.
“No! Marley stai fermo!” urlò Ulisse catturando l’attenzione di tutti quelli che erano rimasti al piano di sotto. Marley stava lanciando sotto la pioggia i pacchetti di cocaina ancora sigillati. Dante accorse per aiutare Ulisse a immobilizzare Marley. Ormai era troppo tardi, tutti i pacchetti erano ammucchiati vicino ad una sedia rivoltata. Dante guardò severamente Marley e lo tirò per il braccio.
“Adesso muoviti. Sali.” gli disse infastidito.
“Così quel verme se la scorda per sempre” ringhiò passando al fianco di Cicerone.Il giovane era ridotto a fasi alterne tra l’incosciente e il delirante, legato sulla sedia. Lancelot stava meglio e si preoccupava di Eva: l’abbracciava e le accarezzava le mani malridotte. Maria aveva pregato prima di coricarsi, e senza dare la buonanotte si era voltata dal lato interno del divanetto. Ulisse fumava silenziosamente, bevendo un po’ di whiskey. Lucrezia era devastata psicologicamente, ma i muscoli iniziarono a cedere, e persino gli zigomi che erano stati continuamente tesi per quasi due giorni di pianto si distesero e ormai ridotta in uno stato di malinconia totalizzante si addormentò.

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