martedì 2 giugno 2015

Medusa Café, capitolo 15 -
La fine giustifica i mezzi

"Lucrezia ha detto che l'hai coperta."
"Non mi sembra che Lucrezia si sia dimostrata una persona affidabile finora."
"Sentiamo, chi sarebbe stato affidabile fino ad oggi, tu, Lancelot?"
"Nessuno è perfetto, ma non ho mai fatto del male a nessuno. Ho cercato sempre di rimediare agli errori degli altri."
"Lo so perché l'hai fatto."
"Credo che tu stia delirando."
"Io credo che per colpa tua siano morte due persone."
"Devo essere un mago se non ho neanche bisogno di toccarle le persone. Per piacere, Beth."
"Ti sei servito di una persona instabile mentalmente per uccidere Adam. E solo perché lui ti aveva sconfitto. Aveva quello che tu non hai potuto avere. Probabilmente consideravi Adam un mediocre, eppure non sei riuscito a digerire il fatto che non lo fosse per Eva. L'unico modo per vincere era colpirlo alle spalle, silenziosamente e spegnerlo per sempre. Sei disonesto."
Lancelot tacque per circa un minuto. Beth respirava appena, non era mai stata così calma.
"Hai una visione un po' distorta delle cose. Ti sbagli quando dici che sono disonesto. Mettiamo caso che quello che stai dicendo sia vero: io ho vinto, questo conta. La verità è che tu sei un'ipocrita perché ti fai portatrice di virtù, quando in realtà sei solo interessata ad imporre il tuo modo di vedere il mondo. Non ce la fai, hai bisogno di vincere. Tutti mentiamo. L'unica differenza tra me e te è che io non mento a me stesso, tu invece l'hai sempre fatto."
Beth fece un tiro di sigaretta, sorrise e poi disse calma: “Credo che sia il caso di parlare con Eva.”
“Cosa ci guadagnersti, Beth?”
“A te cosa importa? Tu non sei interessato a quello che pensano gli altri. Neanche di lei te ne frega.”
“Non parlare di cose che non conosci.”
“Sai una cosa? Pensandoci, in realtà non ci perderei proprio niente.”
“È distrutta, le faresti solo male parlandole.”
“Questo non ti riguarda più. C’è solo da guadagnarci.”
Beth fece bruciare l’ultima parte della sigaretta: sentì l’assenza di sapore del filtro. Pose il mozzicone sull’unghia dell’indice e lo trattenne qualche secondo sotto la pressione del pollice. Mirò al di là dell’uscio della porta e lanciò il mozzicone sotto la pioggia. Il suo sguardo incontrò quello di Lancelot, che per un attimo si spense. Non c’era più nient’altro da decretare. Lo spinse con tutta la sua forza. Lancelot perse l’equilibrio e cadde sotto la pioggia.

Medusa Café, capitolo 14 -
Il fine giustifica i mezzi

-Venerdì, giorno 14-


Lancelot sentì le gocce di pioggia cadere sul suo corpo, e capì che era finita. Tutto il suo lavoro gettato alle ortiche per una scommessa che aveva perso. Gli tornarono in mente le parole di John Lochness, il vecchio dell'intervista di Eva: La vita del bugiardo, però, è piena di rischi. Ogni bugia, ogni inganno, ogni manipolazione, è una nuova scommessa. E sono tutte scommesse in cui ci si gioca tutto. Questavolta, Lancelot aveva perso. Ed era peggio della roulette russa, in cui almeno avrebbe saputo spiegarsi il processo fisico con cui il percussore colpisce il proiettile e il proiettile frantuma il cervello. Era la pioggia, la maledetta pioggia assassina che aveva fatto da cornice al lento processo grazie al quale era diventato meno di un uomo, meno di una bestia, e aveva perso tutto. Mentre indietreggiava aprì le braccia e digrignò i denti in un sorriso da lupo, accettando la sconfitta e la pioggia con dignità. In quel momento poteva essere onesto con se stesso, e ammettere di essere felice all'idea di non dover assistere a ciò che sarebbe seguito all’interno del bar.


***


Aveva conosciuto Eva quando lei lo aveva intervistato, e da subito aveva deciso che l’avrebbe conquistata. L’aveva fatta accomodare nel suo ufficio, e mentre lei gli poneva le prime domande aveva messo in mostra tutti i soliti trucchi di seduzione, ma non sembravano sortire alcun effetto. Poi aveva notato la fede al dito di lei e si era reso conto di star giocando una partita molto più difficile, ma con una ricompensa molto più gratificante. Aveva cambiato tattica, come quando rinunciò al suo sogno di diventare regista ed era passato alla produzione di giochi a premi e reality show, e alla fine era riuscito a vincere la donna dei suoi sogni esattamente come aveva vinto la sua posizione e il suo stipendio, facendo leva sui desideri più cattivi delle persone, facendo credere loro che fossero giusti. Aveva passato gran parte della sua vita a mentire, mentiva anche per lavoro, ma era sempre stato sincero con se stesso, soprattutto a proposito di ciò che provava per lei.

lunedì 27 aprile 2015

Medusa Café, capitolo 13 -
Piove sul bagnato


-Giorni prima-
Ormai Ulisse non ricordava neanche più quante volte si fosse ritrovato in quella stessa, identica posizione. Se ne stava lì, sulla sedia all'angolo del gazebo, con le spalle poggiate al muro e il bicchiere leggermente sollevato di fronte ai suoi occhi, pieno di un liquido color ambra al centro del quale sembrava galleggiare il bulbo luminoso emesso dalla lampadina del lampione posto poco fuori dal gazebo.  L’unica differenza era che quel lampione, fin dal primo giorno dall’inizio del diluvio, era rimasto spento, lasciandolo completamente al buio, immerso nei suoi pensieri.
“Ci avrei scommesso che ti avrei trovato qui.”
Ulisse mosse lentamente lo sguardo sulla figura di Dante, che si avvicinava a lenti passi, tenendo stretta in mano l’agendina che portava sempre con sé. Il vecchio mendicante sorrise divertito. “Non è un po’ tardi per cercare l’ispirazione, Hemingway?” gli disse ridendo sotto i baffi e continuando a sorseggiare il suo drink. “Fammi una sigaretta, va'.”
“Generalmente ti risponderei che non è mai troppo tardi” replicò lui, sedendosi al suo fianco e iniziando ad ammassare pagliuzze di tabacco sulla cartina, “ma stasera non avrei avuto la forza di mettere la penna su carta neanche volendo. Cesare sembrava caduto in catalessi, e la situazione sembrava poter esplodere da un momento all’altro. Veramente, non potevi scegliere un momento migliore per andartene.”
“Oh, credimi, lo so bene.” gli rispose Ulisse con un sospiro. Chiuse gli occhi infastidito, lasciando il bicchiere mezzo pieno sul tavolino di fronte a lui e iniziando a massaggiarsi la fronte. “Ti sei mai chiesto quand’è che si concentreranno sul vero problema, lì dentro?”

martedì 14 aprile 2015

Medusa Café, capitolo 12 -
Non può piovere per sempre

-Mercoledì, giorno 12-


Non finirà mai. Lucrezia non poteva pensare altrimenti. Aveva passato la notte insonne, le mancava il respiro e aveva il groppo alla gola. Ormai stava piangendo sommessamente dal giorno prima, anche se durante notte il suo lamento si era spento gradualmente. Era a causa della pioggia. Dopo dodici giorni Lucrezia aveva finalmente aperto gli occhi, e si era resa conto di essere in trappola. Dopo dodici giorni la pioggia iniziò a farsi sentire nella sua testa, come se le avesse sussurrato, ehi Lucrezia, io sono sempre stata qui. Quel sussurro l’aveva spenta, ma le lacrime continuavano a cadere senza controllo, proprio come la pioggia. Non si era mossa di un centimetro dal divanetto sul quale si era rannicchiata la sera prima. La mattina dopo alcuni di loro tra cui Cesare, Margaret e Dante si erano mossi per fare colazione, decidendo di dividersi un pacchetto di biscotti da sei. Dante l’aveva notata, mentre gli altri la ignoravano completamente. Le si avvicinò con una tazza di caffè e una metà del suo biscotto alla vaniglia. Le parole consolatorie dell’uomo le scivolarono addosso: aveva la nausea e per qualche motivo sapeva che se Dante si ritrovava costretto a dividere un biscotto con lei era soltanto per colpa sua e di Cicerone. Dante era una brava persona, mentre una persona disgustosa come lei doveva almeno avere la decenza di farsi contorcere le interiora e corrodere lo stomaco dagli acidi per ripagare anche soltanto il gesto di donare un biscotto già morso. Infatti Lucrezia rifiutò la colazione rannicchiandosi nuovamente sul divanetto, come se volesse chiudersi il più possibile in un immaginario involucro protettivo. Che si fotta da sola, ha mangiato abbastanza a nostre spese, disse qualcuno. Poco contava chi fosse stato, non era forse la verità?

venerdì 3 aprile 2015

Medusa Café, capitolo 11 - Ben venga il caos


-Martedì, giorno 11-
Madeleine faceva spesso confusione quando sognava: si muoveva in un luogo ma dentro di sé sapeva di trovarsi altrove, parlava con le persone ma i volti non rispettavano le identità. Spesso parlava con quella che aveva l’aspetto di una donna con le braccia coperte di tagli, stesa su un pavimento bianco in una pozza di sangue, ma lei sapeva che in realtà era un’altra persona. Qualche settimana prima aveva sognato che quella donna era padre Simon, spesso sognava che era Maria, e quel luogo che sembrava un bagno in realtà era una chiesa, a volte un negozio, a volte casa sua. Non sempre l’aspetto corrispondeva alla realtà, e sapeva che era una cosa comune a molte persone.
Era mattina, e Madeleine camminava in silenzio nel Medusa Café, impugnando un coltello. Eppure lei sapeva che nulla di tutto ciò era vero, in realtà si trovava nel deserto in cui Satana tentò Gesù, impugnando la lancia dell’arcangelo Michele. I suoi passi non facevano rumore mentre seguiva il demonio, e lui non la sentì avvicinarsi finché non fu a pochi centimetri da lui. Il demonio si voltò verso di lei nel tentativo di ingannarla, assumendo il volto di un uomo, sì, ma di un uomo malvagio.
“Buongiorno, Madeleine, tutto bene? Cosa fai con quel-”
Non sarebbe caduta nella sua trappola di tentazione, non lo avrebbe lasciato parlare. Madeleine conficcò la lancia nello sterno del demonio e lo guardò spalancare i suoi occhi di fuoco, emettendo un grido strozzato. Le mani le tremavano per l’eccitazione e per la paura, il suo intero corpo tremava di un’estasi mistica mentre liberava la terra dal peccato e gli uomini tutti dalla prigonia della pioggia di sangue. Nel sogno, Madeleine aveva colpito Adam al petto sette volte con un coltello, nel bagno del Medusa Café. Nella realtà, aveva trafitto Satana nel deserto. Guardò attraverso la piccola finestra del bagno, e vide il sole splendere. La sua fede era stata messa a dura prova, ma lei non aveva vacillato. Era stata brava. Guardò ancora quel corpo macellato e decise che era il momento di portare a tutti la buona notizia. Uscì dalla grotta, ancora impugnando la lancia, e vide un uomo venirle incontro.

martedì 24 marzo 2015

Medusa Café, capitolo 10 -
Vita da cani



-Lunedì, giorno 10-

Quando decise finalmente di rassegnarsi alla veglia e di alzarsi era ormai passata un’oretta da quando era sorto il sole, per quanto si riuscisse a notarlo dietro quelle insopportabili nuvole che ricoprivano il cielo da una decina di giorni. Ad accoglierlo, mentre usciva, era il solito odore di terra bagnata e il rumore di gocce che tormentavano incessantemente l’asfalto, andando lentamente a corroderlo. Dieci giorni ininterrotti, quasi stentava a crederlo. Per quanto la giovane età di certo non lo aiutasse, non ricordava che fosse mai successa qualcosa del genere da quando era in vita. Fece qualche passo sotto il gazebo, giusto per stiracchiarsi. Quelle notti che stava passando nel bar non erano state tra le più comode della sua vita, soprattutto considerando che tutti gli altri avevano colonizzato il posto, facendolo sembrare più un campo di sfollati che altro. Quell’ultima notte, poi, era stata infernale. A pensarci riusciva ancora a sentire le urla della puttanella che si stava scopando Cicerone, e quell’odore così familiare che aveva impregnato tutto il piano di sotto. Saranno andati avanti per qualche ora, pensò irritato, accusando la nottata quasi insonne, quindi  il pensiero volò senza controllo all’ultima volta che era riuscito LUI a farsi una scopata. Era passato ormai qualche mese, e quei rumori, quelle sensazioni che aveva così distintamente percepito di certo non rendevano l’astinenza maggiormente sopportabile. E quello era solo il primo pensiero della giornata.
Scosse leggermente la testa, cercando di scacciare quelle immagini, prima che potessero rovinare ulteriormente la mattinata, che era già iniziata nel migliore dei modi, quando la sua attenzione venne colta da un rumore di passi.

domenica 8 marzo 2015

Medusa Café, capitolo 9 -
Funny Games



-Domenica, giorno 9-

Se solo Marley non fosse stato così ingordo la vigilia del suo primo giorno di scuola, adesso non sarebbe Marley. Tutto accadde molti anni prima quando lui aveva iniziato da qualche giorno a ritenersi “grande”.  Marley aveva scoperto che un vero uomo, quando faceva la pipì nella tazza, doveva appoggiare il palmo della mano sulla parete del muro e sospirare rumorosamente per la liberazione. Qualche giorno prima c’era riuscito, quindi adesso si poteva considerare a tutti gli effetti “grande”.  Quando ormai tutti i familiari erano a letto, si infilò in cucina e svuotò una confezione da sei di gelati in meno di settantotto secondi. Il giorno dopo, alle 7:45, la madre batté forte i pugni contro la porta del bagno, e gli disse che non avrebbe potuto saltare il primo giorno di scuola. Marley però aveva davvero la diarrea quella mattina, ma avendo paura che la madre avrebbe buttato da un momento all’altro giù la porta si decise ad uscire. Se ne avesse avuto bisogno, avrebbe utilizzato i bagni della scuola. Tanto ormai era “grande”. Ovviamente Marley fu l’ultimo ad entrare in classe e fu costretto a sedersi vicino ad Alex, un mingherlino con degli occhiali a fondo di bottiglia e gli incisivi sporgenti, che quando lo vide avvicinarsi per prendere posto gli riservò uno sguardo di terrore. Gli altri bambini risero e li presero in giro per tutta la giornata, anche perché Marley andava continuamente in bagno. Questo fu solo l’inizio di una lunga serie di sopraffazioni che nel tempo lo convinsero che il suo compito era stare con quelli strani per resistere e fare gruppo contro i bulli. Finché i bulli non divennero i figli di papà mentre lui uno di quelli che indossava jeans stracciati e fumava marijuana. Finché non capì che il discorso era politico e che il problema erano i ricchi e potenti, quindi iniziò a frequentare i centri sociali per diffondere e condividere idee pure sul bene sociale. Finché non si ritrovò a perdere tempo in un bar da quattro soldi e a doverci rimanere probabilmente per sempre.

Se solo Marley non avesse mangiato quei gelati, non sarebbe diventato niente di tutto questo e probabilmente non avrebbe dovuto giocare ad “Obbligo o verità” con degli sconosciuti, ma sarebbe stato altrove.
Cicerone, verità.