giovedì 5 febbraio 2015

Medusa Café, capitolo 6 -
Dura lex, sed lex

-Giovedì, giorno 6-


Tra le ore 21:00 e le ore 24:00
Lancelot era con le braccia congiunte e le gambe leggermente divaricate. La camicia, la cui pregevole fattura era ormai nascosta da aloni di sudore e qualche inevitabile macchia di caffè, fuoriusciva scompostamente dai pantaloni. Eppure aveva investito un’evidente cura nell’ arrotolarsi le maniche, sembrava che gliel’avessero cucita addosso e le pieghe fossero state fatte dai migliori sarti del mondo. Cicerone lo apprezzava soprattutto per questa sua naturale predisposizione ad apparire bene anche in condizioni estreme come quelle, per il resto gli sembrava che, quel giorno in particolare, stesse parlando un po’ troppo. Dopo aver riflettuto  l’uomo ben vestito aprì bocca.
“Abbiamo bisogno di un volontario” disse accarezzandosi con due dita la barba che ormai cresceva incolta. “Una persona che garantisca il bene comune, una persona onesta” continuò per poi fermarsi qualche secondo e guardare fuori dalla finestra la pioggia che come un incubo perseverava. “Il problema principale è sempre questa cazzo di pioggia” disse indicando con una mano piatta fuori dalla finestra, “non abbiamo tempo da perdere a giocare a guardie e ladri, dobbiamo pensare a come sopravvivere, non credete?” concluse con sarcasmo.
Cicerone aveva il cuore che gli batteva a mille. Quello era il suo momento. Lui sì che poteva far girare le cose nel verso giusto e adesso avrebbero dovuto finalmente ascoltarlo. Capì che in quel momento avrebbe dovuto starsene zitto e quando meno se l’aspettava sarebbero stati tutti gli altri, compreso Cesare, a volersi affidare a lui. Adesso immaginava Lancelot che gli si avvicinava e con serietà gli chiedeva cosa avrebbero dovuto fare con il cane, un momento dopo immaginava Lucrezia, le sue labbra calde e i suoi occhi glaciali, lei gli avrebbe chiesto un massaggio e lui l’avrebbe eseguito magistralmente nell’ufficio di Cesare, o meglio, quello che sarebbe diventato il suo ufficio.
“Adam, tu che fai nella vita?” disse a voce bassa Lancelot, attirando gli sguardi di Lucrezia, di Eva e di Dante. Adam, che in quel momento cingeva al suo fianco Eva e le accarezzava sommessamente l’anca sinistra, si destò e si guardò attorno come se volesse assicurarsi che Lancelot si riferisse proprio a lui.
“Be’, io dirigo il reparto informazioni del Ministero degli Interni” disse sorridendo imbarazzato, “ce n’è voluto per raggiungere quella posizione.”
Cicerone capì, da come gli occhi di Lancelot si erano illuminati, che era Adam a sembrargli adatto. Provò automaticamente invidia. Il battito del cuore gli si era regolarizzato. Adesso stava combattendo l’invidia passando per un sentimento di vergogna per sé stesso, quindi cercò di riflettere. In quel momento Lancelot pareva essere l’ago della bilancia, perciò doveva in qualche modo ricevere la sua approvazione.
“Sarebbe perfetto” affermò con convinzione Lancelot.
Quella sera gli abitanti del Medusa Café si erano spaccati in due gruppi che avevano reagito in maniera completamente opposta all’avvenimento della mattina e alle tese conseguenze che aveva portato. Da una parte vi erano quelli che erano in totale confusione, come pecore di un gregge in attesa del loro cane pastore; dall’altra vi erano quelli più sanguigni che si erano rimboccati le maniche per risolvere il problema. Senz’altro Lancelot era uno di questi, ma Cicerone non era stato da meno. Adesso però aveva capito che, paradossalmente, rimanendo in silenzio, e parlando soltanto se fosse stato necessario, tutto sarebbe andato come voleva lui.
“Chi sei tu per dire cosa è perfetto qui dentro?” proferì acidamente Beth alzandosi da uno sgabello nei pressi del bancone, per poi guardarsi attorno terminando il suo sguardo accigliato su Cesare che sedeva sconsolato in un divanetto ad angolo, “e voi tutti, vi siete fatti lobotomizzare, che vi fate dire cosa è giusto da questo qui? E tu capo, questo è il tuo-“
La giovane cameriera fu interrotta da Lucrezia: “No, questo bar non è più di nessuno in questo momento, Beth. Mettitelo bene in testa.”
La cameriera sbatté infastidita le palpebre, sembrava stesse partendo al contrattacco. Cicerone decise che avrebbe dovuto dire qualcosa per evitare altre discussioni .
Disse: “Lancelot ha ragione, e Beth, in questo momento non è importante di chi sia il bar, abbiamo bisogno di stabilità.”
Era contento del tono quasi formale che aveva adottato, gli donava un’importante investitura.
“Siamo d’accordo amico mio. E a te, bel colletto bianco, il tuo discorso fila, finché non si scontra con il fatto che il signorino qui, che sarebbe perfetto, è un dipendente statale” si inserì Marley polemizzando.
Beth sbuffò rumorosamente mentre Dante si coprì la bocca per una risatina. Lui e Ulisse erano sempre in disparte ad osservare, come se fossero il pubblico di uno spettacolo improvvisato.
“Eccolo che parte” disse Beth annoiata.
Marley la ignorò e continuò il discorso gesticolando: “C’è il mio caro amico Cicerone, che studia legge da un bel po’. Se Adam deve stare al fianco di Cesare, una persona in più non farà che bene alla gestione del bar.”
Cicerone si sentì di nuovo il cuore battere a mille. Adesso tutti lo guardavano in silenzio. Lo sguardo di Lancelot si soffermò qualche secondo in più, penetrandolo nel profondo. Per quegli attimi si sentì denudato.
Prima di sciogliere l’assemblea e salutarsi per la notte, i nuovi ruoli di Adam e Cicerone furono accettati all’unanimità.


Tra le ore 18:00 e le ore 21:00
“Si dice la sangre, non el sangre, è un sostantivo feminino” disse Lucrezia deridendo Marley.
Cicerone rise. Si rese conto dell’imbarazzo di Marley che, in tutti i modi, da quando erano chiusi in quel bar, provava a risaltare sia agli occhi di Lucrezia che di Beth. Gli voleva bene, forse era il suo amico più vero. Nonostante non avessero quasi nulla in comune, riuscivano a divertirsi senza difficoltà insieme. Come quella volta che Marley un po’ brillo provò ad attaccare bottone con due ragazze parlando una lingua palesemente inventata, e Cicerone aveva dovuto fingersi il suo interprete e affermare che parlasse bulgaro. Dopo circa dieci minuti una delle due ragazze ridendo confessò di avere la madre bulgara e che loro avrebbero meritato un premio per la persveranza nell’idiozia. In momenti come quelli però, si rendeva conto di quanto il suo amico potesse sembrare stupido agli occhi di una ragazza con un po’ più di cervello rispetto a quelle che solitamente abbordava sottocassa ai rave party completamente imbottite di MD.
I tre giovani erano seduti a terra, vicino alla finestra del balconcino del piano superiore, e si passavano una canna senza un ordine preciso. Cicerone notò che Lucrezia era l’unica a non stare seduta ingobbita. La postura della schiena della ragazza, che scendeva regolarmente verso il basso, formando una curvatura dove era posto l’osso sacro, metteva in risalto la rotondità del fondoschiena e l’apertura delle spalle faceva risaltare un seno proporzionato, fiero in avanti. Aveva proprio un bel profilo. Cicerone iniziava a farci caso, ma era sempre attento a non destare sospetti. Proprio in quel momento, mentre discutevano sulle regole grammaticali delle lingue che studiavano, Lucrezia si accorse che Cicerone la stava esaminando, ma invece di mostrarsi infastidita parve accennare ad un sorriso e si compiacque di stare al centro dell’attenzione.
“Perché hai scelto lo spagnolo? E’ una lingua così stupida, la scelgono tutti!” argomentò Marley.
“Perché sei così ottuso? Te l’ha mai detto tua madre che sembri stupido? Tutti le perdonerebbero l’errore semantico, ma soltanto in giustificazione dell’amore materno” gli rispose la ragazza costruendo un’espressione facciale seria palesemente finta e dandogli qualche pacca sulla spalla.
Cicerone rise. Lucrezia, accortasi dell’approvazione di uno spettatore, sorrise con eleganza e si inchinò teatralmente. Marley si stizzì e scuotendo il capo guardò Cicerone.
“Che cazzo ridi tu? Dovresti stare dalla mia parte. Capisco che l’insistente odore di fica non lavata da giorni sia ipnotizzante, ma su! Un po’ di dignità, amico” proclamò compiaciuto Marley.
Lucrezia si fece improvvisamente seria in volto e avvicinò lentamente l’indice destro davanti alla punta del naso, come per zittirlo.
Disse: “ Punto uno. Lo Spagnolo è la seconda lingua più parlata al mondo dopo il Mandarino, e questo significa che ho l’opportunità di comunicare con più persone rispetto a te, che studi Swahili. Diciamo che, se proprio vogliamo fare due conti, a livello quantitativo funzionalmente parlando, io sono più utile di te alla società, oltre che più richiesta.”
“Sì, lo sappiamo bene perché saresti più richiesta” la interruppe Marley ridendo.
Lucrezia sbuffò e alzando il tono della voce continuò: “Punto due. Le tue volgarità di bassa lega mettono in risalto una tua incapacità nell’argomentare con discorsi che possono essere brillanti e allo stesso tempo spassosi … e, fammi finire! Punto tre. Il tuo amico sembra aver mostrato oltre alle palle anche il cervello qualche ora fa, è riuscito a fare quello che tu promettevi soltanto in continuazione, lamentandoti di quella stronza.”
Cicerone era inorgoglito dalle parole della ragazza, lo facevano sentire importante. In fondo era vero, lui aveva fatto sentire la sua voce quel pomeriggio e gli altri si erano convinti che i provvedimenti proposti da lui erano quelli più giusti. Marley era un bravo amico, ma certe volte invece di continuare a polemizzare su tutto avrebbe dovuto agire, fare qualcosa. Probabilmente al mondo esistevano due tipi di persone: quelli come Marley, che si lamentano continuamente senza proporre soluzioni valide ai problemi e quelli come lui che invece di perdere tempo a lamentarsi agiscono. Per di più, lui era anche modesto, non avrebbe mai detto che le sue proposte erano infallibili, ma almeno ci provava.
Marley fu ferito nell’orgoglio ed era palese da come si era zittito di botto. Lucrezia se ne accorse, quindi si tirò in piedi guardando Cicerone e scuotendo la testa per poi accarezzare la testa di Marley scombinandogli i capelli.
Gli disse: “E adesso non offenderti, nessuno qui dentro profuma di rose. Vado in bagno!”


Tra le ore 13:00 e le ore 14:00
“Non possiamo convivere pacificamente basandoci sul terrore, non posso permetterlo” disse in preda alla disperazione Cesare rivolgendosi a Cicerone, Lancelot e Lucrezia che gli si paravano di fronte.
Beth e Margaret erano dietro al bancone e quest’ultima sembrava accigliata e preoccupata.
Cicerone sentiva il sangue che ribolliva dentro, aveva preso coraggio e stava mettendo in difficoltà il gestore del bar, che sin dall’inizio aveva mostrato poca stima nei suoi confronti.
Disse: “Cesare, adesso basta. Sono ore che rimandi la soluzione del problema e non mi sembra giusto nei confronti di tutti quanti.”
“Adesso basta? Ma chi ti credi di essere tu? E’ dall’inizio che vuoi avere l’ultima parola su tutto, sei solo un ragazzino” rise istericamente il gestore del bar.
“Cesare, se continui così inizieremo a dubitare anche della tua onestà” disse Marley inserendosi nella discussione, “ l’abbiamo capito che la tua cara Maggie è intoccabile, ma davvero hai intenzione di formare una casta?”
“Tu ti stai bruciando il cervello” proruppe sonoramente Beth, “ ti metti a parlare di caste, ordini gerarchici, ma ti senti? Smettila di giocare, non siamo in un centro sociale qui dentro. Stiamo parlando di persone.”
Margaret aveva lo sguardo fisso su Lucrezia.
Cicerone si gonfiò i polmoni di ossigeno e iniziò un discorso con sonorità: “Cara Beth, i rapporti tra le persone si basano sul rispetto. Nel momento in cui viene a mancare il rispetto e soprattutto, nel momento in cui si predica bene e si razzola male, bisogna mettere in ordine le cose. Altrimenti ci sarebbe l’anarchia e poiché non sappiamo quanto tempo rimarremo qui dentro … tutto diventa delicatissimo. Margaret ha rotto un equilibrio-“
Beth lo interruppe gridando: “ Lo capisci che non abbiamo prove per incolpare Margaret? Potrebbe essere stato chiunque!”
In quell’istante Cicerone ebbe un secondo di esitazione, ma per sua fortuna Marley iniziò a inveire contro Beth con affermazioni senza logica. Furono una manciata di secondi, durante i quali i dubbi lo sopraffecero e si sentì circondato non più da persone, ma da tutti potenziali colpevoli, egoisti. Adesso provava un improvviso distacco verso quelle persone, gli parevano più delle spade che nascondevano la propria lama in un fodero che degli esseri umani. Non aveva la certezza che fosse stata Margaret, anzi si ricordava che la notte precedente aveva sognato qualcosa che in qualche modo lo confondeva. Eppure in questo momento non poteva mostrarsi incerto, e comunque l’avrebbero punita in maniera esemplare, così che tutti potessero capire. Non sarebbe stata la fine del mondo. In questo modo il vertice del potere si liberava e lui avrebbe avuto sicuramente più voce in capitolo di Margaret da quel momento in poi. Tutti avevano bisogno di lui, Cesare non sapeva dove stesse di casa la risolutezza.
“Adesso basta. Fate silenzio” esclamò perentorio zittendo Marley, Beth e Cesare che urlavano insensatezze e Lancelot che cercava di mediare. Silenti gli volsero lo sguardo.
Disse concitato: “Le uniche prove che abbiamo ci dicono che Margaret ha violato le leggi che ha  lei stessa proposto affinché tutti avessimo un trattamento equo. Non abbiamo giudici qui dentro, né tempo per fare processi, ma abbiamo un pericolo costante, che è quella cazzo di pioggia che non smette più. Non ci possiamo permettere di vivere nel terrore, appunto per questo se si infrange una legge bisogna essere puniti. Nessuno dovrebbe rompere l’equilibrio e mettere in pericolo la vita degli altri. Quindi, visto che tu sei il nostro amato leader, comportati da tale” disse agitando entrambe le braccia verso Cesare. ”Margaret in questo momento non è più una tua amica, è uno degli abitanti del Medusa Café che ha sbagliato. Nessuno può sbagliare più d’ora in avanti, neanche tu Cesare” concluse categorico.
In un tavolino ad angolo c’erano Ulisse e Dante che giocavano a carte: in quel momento si poteva sentire soltanto il rumore delle carte che si poggiavano sul legno laccato. Tutti erano in silenzio. Eva sbuffò nei pressi della porta, poi improvvisamente lanciò un urlo. Tutti si voltarono repentinamente e nel giro di qualche secondo Adam era a mantenere il polso alla moglie che era a terra e si manteneva il petto.
Tutti avevano formato un cerchio attorno alla donna e Maria e Lancelot erano subito dietro Adam.
“Tranquilli, non vi preoccupate. Penso che sia stato solo un attacco di tachicardia. Tesoro, portami via per piacere” proferì Eva confusa.
Tutti si guardarono preoccupati.
Adam le rispose: “Eva, va tutto bene. Ora calmati, ti porto sul divanetto.”
Nel frattempo Beth aveva portato un bicchiere con dell’acqua fresca. Cicerone e Cesare si guardarono intensamente. Cesare non aveva più le forze per controbattere, i suoi occhi stavano perdendo la durezza e adesso esprimevano soltanto rassegnazione.
“Margaret, mi dispiace. Signori e signore, stamattina è stata infranta una regola fondamentale per la convivenza e nonostante non sia d’accordo con questo tipo di risoluzione, simbolicamente Margaret dovrà restare fino a domani mattina nel retro del furgone. Le sarà assicurata dell’acqua, ma salterà i pasti che le spettavano per questa giornata. E che questo sia d’esempio per tutti voi” disse Cesare sforzandosi di dare potenza retorica ad un discorso che però riusciva soltanto ad impallidire nei confronti di quello tenuto da Cicerone precedentemente.
Beth e Margaret sbarrarono gli occhi. Gli altri tacquero. Margaret borbottò qualcosa, ma non uscì nulla di compiuto dalla sua bocca, quindi guardò Beth che adesso fissava il pavimento. La ragazza alzò lo sguardo verso l’insegnante e scosse la testa. Cesare si chiuse in ufficio sbattendo la porta. Lucrezia aveva un’espressione di soddisfazione e le sue labbra erano più rosse del solito, notò Cicerone. Aveva acquisito improvvisamente più sex appeal rispetto a tutte le altre donne del locale, pur non avendo fatto e detto nulla. Margaret si diresse da sola verso il furgone senza rivolgere la parola a nessuno. Chiuse  il portellone del veicolo sbattendolo.


Tra le ore 8:00 e le ore 9:00
“Vergognati!”
Fu questo l’urlo ripetuto che interruppe il sonno di Cicerone. Era ripetuto alternato da due voci, una maschile e l’altra femminile. Gli occhi ancora appesantiti si socchiusero, allora distinse le voci di Marley e di Maria. Il ragazzo, ancora confuso per l’improvviso risveglio, si mise a sedere. La scena che gli si parò davanti era affollata: erano praticamente tutti svegli. Cesare, Beth e Margaret indietreggiavano verso il bancone. In prima fila si opponevano a loro Marley e Maria, con subito dietro Madeleine che teneva tra le punte delle dita qualcosa di indecifrabile per gli occhi di Cicerone, che stavano ancora mettendo a fuoco. Tutti gli altri erano a seguire. Soltanto Ulisse era seduto su un divanetto alla sua destra e accarezzava il cane che perdeva un po’ di bava densa dalla bocca. Cicerone fece una smorfia di disgusto, quindi si alzò lentamente avvicinandosi al gruppo che ormai era fermo davanti  al bancone.
“Non ho fatto niente, quelle cartacce non le ho messe io lì” esclamò Margaret, con un’espressione confusa dipinta in volto.
“E’ la tua borsa, e la tieni sempre vicino a te quando dormi. Per piacere, Margaret” le disse indignata Maria. Subito dietro c’era Madeleine che annuiva con la testa e ripeteva: “E’ vero, Maria ha ragione. E’ vero.”
Cicerone si avvicinò a Dante, che era in coda alla fila, con un’aria a metà tra il divertito e l’imbarazzato. Gli chiese cosa fosse successo, perché si fosse formata quella ressa e cosa avesse fatto Margaret.
“La schizofrenica ha frugato nella borsa di Margaret e ci ha trovato ben tre confezioni di gelati al caramello, quindi è andata a spettegolarlo alle altre donne e la signora in giallo benedetta dallo Spirito Santo ha iniziato a delirare” disse Dante interrompendosi saltuariamente solo per ridacchiare.
“Chi sarebbe la schizofrenica?” replicò Cicerone confuso per poi riconoscere tra le mani di Madeleine una confezione dorata  e riprendere dicendo, “ … ah, ho capito. Quella schizofrenica.”
Il giovane sorrise a Dante, il quale decise di appoggiarsi ad un tavolino e cacciare il suo quadernetto per prendere appunti. Cicerone invece avanzò verso il centro della sala, dove tutti si erano radunati.
“Non aggredite Margaret, dice che non ne sa niente” disse con determinazione Beth che le stringeva il braccio sotto al suo per rassicurarla.
Margaret cambiò improvvisamente espressione e fissò Madaleine indispettita. Le si rivolse con sdegno: “Piuttosto, chi ti ha dato il permesso di frugare nella mia borsa, alienata? Volevi rubare? Tu sei una ladra, vergognati tu.”
Madeleine rivolse il suo sguardo a Maria come un cane, consapevole di aver fatto qualcosa di sbagliato, anche se per un giusto motivo, fa con il padrone: “Avevo bisogno di una cosa …”
“A casa mia si chiede prima di mettere le mani tra le cose degli altri” replicò Margaret urlando.
“Certo, come no! Margaret, la macchina del fango è un metodo vecchio quanto i politici dai quali hai imparato a gestire una classe di mocciosi” si introdusse nella conversazione un Marley battagliero.
Nel frattempo Madeleine aveva spostato il suo sguardo su Lucrezia e con sguardo teso pareva volesse dire qualcosa, ma non lo fece.
“Cristo, Marley. Stai sempre a sparare cazzate?” replicò Beth sbattendo gli occhi all’indietro.
“Tesoro, ma cosa stavi cercando nella borsa di Margaret?” chiese compassionevolmente Maria.
Madeleine abbassò gli occhi e rimase in silenzio. Tutti si zittirono.
“Madeleine, perché hai messo le mani nella borsa di Margaret senza chiederle il permesso?” le disse con calma Cesare.
Adesso tutti guardavano la donna che aveva lasciato cadere a terra le prove, mantenute con fierezza fino a quel momento. Tutti aspettavano con ansia una risposta, e Lucrezia iniziò dicendo: “Ecco, veramente…” Fu Margaret ad interromperla senza neanche far caso che la ragazza stesse parlando: “Sapete cosa penso? Penso che non la matta non stava cercando un bel niente. Forse aveva fame stanotte, poi ha trovato qualcuno a cui dare la colpa.”
“No! Non lo farei mai. E’ un peccato disgustoso, è solo che… ho aperto la borsa sbagliata” esclamò con le lacrime agli occhi Madeleine.
In quel momento anche Beth scattò con lo sguardo verso Margaret e la guardò severamente.
Maria impettita si rivolse con voce calma alla platea che si era formata dicendo: “Madeleine non farebbe mai una cosa del genere. Digiunerebbe pur di regalare ai più bisognosi, figuratevi rubare cibo” L’abbracciò maternamente quindi le si rivolse con una voce dolce “Madeleine, tesoro mio, perché non ci dici cosa stavi cercando nella borsa?”
Ormai Madeleine in preda ad una crisi isterica piangeva. Cicerone era lì ad osservare una scena che gli sembrava paradossale oltre che patetica. Alla sua destra c’era Lancelot che assisteva senza dire nulla, mentre alla sua sinistra c’era Eva, il cui sguardo mostrava pietà, mista a confusione, cosa che la rendeva muta.
Lucrezia si schiarì la voce per poi iniziare a parlare: “Veramente posso confermare che Madeleine non ha frugato nella borsa-”. Improvvisamente Raider infilandosi sotto le gambe, prima di Adam e poi di Marley, raggiunse la donna che stava piangendo e venne accolto dalle imprecazioni di Maria.
“Va’ via cagnaccio!” urlò la donna cercando di proteggere l’amica. Eppure Raider perseverava tentando di avvicinarsi a Madeleine, piegata sulle ginocchia. Il cane tentò di annusarle in mezzo alle gambe più volte ricevendo un paio di calci da Maria, finché Cesare non lo tirò dietro il bancone. Nel suo essere inopportuno, Raider mise in evidenza l’innocenza di Madeleine.
“Oddio” esclamò Eva seguita da Lucrezia che disse: “Ecco, lo sapevo.” Nel giro di due secondi lei e Lucrezia avevano preso sotto braccio Madeleine e si erano dirette verso il bagno. Dando le spalle a tutti si palesò una macchia purpurea che stava crescendo sui pantaloni di raso grigio della donna. La sala calò nel silenzio per l’imbarazzo e Margaret parve esprimere scoraggiamento dallo sguardo che visibilmente si stava spegnendo .
“Ecco, la signora stava cercando qualcosa per contenere i fiumi di porpora” proferì con serietà Marley, guardando Margaret, “mentre tu ti sei ingozzata di cibo e volevi anche darle la colpa.”
“Sei proprio un cafone. Chiudila un po’ quella bocca” disse indignata Beth.
“Allora signori e signore, forse è il caso di darci una calmata” disse Lancelot interrompendo la discussione che stava per ripartire. “Non c’è bisogno di urlare e litigare in questo modo. E’ evidente che sia successo qualcosa, e adesso ne parleremo, vero Cesare? “
“Certo, chiariremo tutto con calma” rispose il gestore del bar.
Dopo qualche secondo di silenzio Lancelot riprese la parola: “Se penso che stiamo parlando seriamente di gelati rubati, mi viene da ridere. Lo considero grottesco. Eppure mi guardo allo specchio e vedo un uomo con gli stessi vestiti addosso da sei giorni, sporco, con la barba non fatta, non ritengo di avere problemi di fame, le dosi che ricevo giornalmente mi sembrano adeguate e se ci fosse qualcuno che sentisse la necessità di mangiare qualcosa in più, la concederei, perché l’ultima cosa da perdere in questi casi è l’umanità.” L’uomo si fermò qualche secondo mordendosi il labbro, si arrotolò meglio la manica destra che stava cedendo, infine riprese dicendo: “Sono state messe delle regole, così che tutti possano ricevere un minimo per sopravvivere qui dentro. Mi sembra che sia stato un provvedimento intelligente e a questo punto gradirei che non vengano commesse ingiustizie.” Si interruppe per prendere fiato, poi guardò Margaret con uno sguardo malinconico e continuò a parlare: “Penso che ci sia bisogno di una punizione. Quando vengono stabilite delle regole, si devono prendere provvedimenti per chi non le rispetta, anche se soltanto per una questione simbolica ed educativa per tutti. Sarebbe solo una formalità.”
Mentre Lancelot stava parlando era ritornata Lucrezia, per chiedere sottovoce a Beth se avesse dei pantaloni o dei leggings di ricambio da far indossare a Madeleine. Beth le indicò la dispensa, non scostando lo sguardo da Lancelot che parlava con voce profonda. Cicerone fece per la prima volta caso a quanto vive fossero le labbra di Lucrezia, o forse soltanto al risveglio si ravvivavano così. Gli pareva quasi di sentire il calore che potevano emanare.
“Il discorso di Lancelot è razionale, non trovate?” disse con fierezza Lucrezia, tornata dopo aver portato un paio di leggins neri nel bagno.
“Tra l’altro c’è questo cane che è solo d’impiccio. Puzza, sporca e mangia cibo che spetterebbe a noi” disse Maria accigliata.
Beth fu inflessibile nel tono: “Raider non si tocca.”
“Allora dovrebbe mangiare meno volte al giorno di noi, in fondo non morirà di fame” disse Adam stringendosi nelle spalle.
Lancelot disse: “La questione del cane anche è abbastanza delicata, ma per il momento abbiamo un argomento più urgente. Bisogna stabilire delle regole sulla punizione” congiunse le braccia e guardò Cesare poi riprese a dire “giusto?”
Cesare tentò di tranquillizzare tutti dicendo che non ci sarebbe stato alcun bisogno di punire nessuno, ma quando furono nuovamente tutti riuniti al piano di sotto del bar, dopo il ritorno di Madeleine e Eva, si ritrovò in minoranza. Marley, Maria, Lucrezia, Madeleine, Lancelot, Eva, Adam e Cicerone erano convinti che da quel momento in poi bisognava punire chi avrebbe violato le regole, e che sarebbe stato l’unico modo per farle rispettare.
Cicerone, che studiava legge da anni, rifletteva sul concetto di punizione nel diritto penale moderno superato, e sul fatto che ormai si tendeva a considerare la pena come un periodo per la rieducazione. Questa almeno è la teoria, la pratica è che i detenuti vivono un vero e proprio inferno e non hanno alcun modo di essere rieducati. Il giovane scosse la testa. Era giusto punire una donna perché aveva rubato dei gelati? Era un antico modo di vedere la legge, ma considerando la giovane età di quella piccola società, che si era formata per inspiegabili cause naturali, era già molto potersi regolare in questo modo. Cicerone approvava, anzi ci tenne a rendere partecipi i presenti delle sue nozioni di diritto penale, e lo fece con modestia. Nessuno avrebbe potuto trattare con la sua naturalezza tale quella materia, si sentiva in dovere di illuminare gli altri. Lucrezia e Dante parvero essere interessati alle parole del giovane e lui ne fu fiero. Bisognava considerare anche la questione delle prove, che non sarebbero state mai trovate senza una vera e propria indagine, e se anche l’avessero svolta, sarebbe stato impossibile tenere un processo senza giudice e avvocati. Cicerone Rideva tra sé e sé immaginandosi il bar come un’aula di tribunale con Ulisse come giudice, Beth sarebbe stata l’avvocato difensore di Margaret e lui l’avvocato della parte offesa ovvero il bar tutto. In realtà dovevano farsi bastare quelle prove, che erano nient’altro che spazzatura trovata da una donna di dubbia sanità mentale che frugava nella borsa della presunta colpevole.
“Voi siete impazziti, non siete nessuno per decidere cosa bisogna fare” urlò improvvisamente Beth.
“Siamo la maggioranza, Beth” disse con calma Cicerone.
“Siamo poco più di una decina di sfigati in un bar, che è di Cesare per di più e vi sta accogliendo qui molto generosamente” replicò Beth con lo sguardo duro, quindi si allontanò entrando concitata nell’ufficio di Cesare sbattendo la porta dietro di sé.
Cesare era palesemente confuso, non sapeva che scelta prendere, ma proprio per allontanare la consapevolezza della sua confusione si diede un tono dicendo: “Va bene, tutte le decisioni sono rimandate a più tardi, adesso tornate a fare le vostre cose.”
Tutti seguirono il consiglio, alcuni sbuffando e altri borbottando qualcosa. Il Medusa Café tornò ad essere calmo per qualche ora.

Tra le ore 3:15 e le ore 3:30
Era profumo d’incenso. Improvvisamente Cicerone era piombato in un enorme salone con luci soffuse e cuscini per terra sparsi ovunque. Finalmente il rumore della pioggia non si sentiva più ed era stato sostituito da un sottofondo di musica araba: qualcuno suonava il saz. Dal buio si svelò lentamente la figura di una giovane donna che sulle note di quella musica improvvisava una danza del ventre, e lentamente, disegnando ampi cerchi immaginari sul pavimento si avvicinava al giovane. L’aria si faceva più calda. La donna, nel muoversi tendeva i muscoli delle gambe che si erano ormai scoperte, lasciandola con una mutandina esile dalla quale pendevano dei sonagli. Da un momento all’altro la donna parve non indossare più il reggiseno, ma Cicerone era sicuro di non averla vista mentre lo sfilava via. Ormai erano a due metri di distanza: lui steso su una decina di cuscini comodissimi e lei, in topless con i seni, che delicati sembravano non subire alcuna ripercussione nel movimento cadenzato della danza. La pancia invece aveva un che di ipnotico e nel suo stringersi, fra l’alternato piegarsi dei fianchi, aveva eccitato Cicerone. I piedi nudi adesso si intrufolavano danzando tra le due gambe stese e divaricate di lui. La donna si piegò e inizio ad accarezzare il petto del ragazzo, poi gli sfiorò una guancia delicatamente, infine avvicinò il suo viso a quello del giovane e iniziò a leccarlo. Per un attimo Cicerone riconobbe i lineamenti e gli occhi della giovane donna in quelli di sua madre in una vecchia foto che la ritraeva da giovane. Si rese conto di essere incontenibilmente eccitato, ma allo stesso tempo provava vergogna di sé per l’atto incestuoso che stava commettendo. Eppure non riusciva a fermare la lingua calda che gli accarezzava ritmicamente prima la guancia destra, per poi riscendere sotto al mento e risalire sulle labbra, infilandosi tra i denti cocente.


Improvvisamente Cicerone aprì gli occhi e ripiombò all’interno del Medusa Café. Si ritrovò il cane, Raider, che gli stava leccando la faccia, quindi lo allontanò lanciandogli uno schiaffo secco sotto il mento. Era poco lucido, non aveva neanche la forza di guardare l’orologio, riuscì soltanto a voltarsi per cambiare posizione, e poco prima di richiudere gli occhi si accorse che era ancora notte fonda. La porta d’ingresso del Medusa Café era aperta, e si potevano scorgere all’esterno due figure, una maschile e una femminile, che fumavano in silenzio. Ormai era di nuovo nel mondo dei sogni e finalmente la sua giovane madre era nuda sopra di lui e gli ripeteva, “Sei il mio Dio, sei il mio Dio!”. Poteva finalmente lasciarsi andare al disgustoso atto, che nel sentimento di vergogna lo rendeva ancora più eccitato. Qualche attimo dopo era affacciato a un balcone su una grande piazza, piena di persone che urlavano il suo nome scandendolo in sillabe ritmicamente: “Ci-ce-ro-ne”. Era pieno di gioia, anche se non capiva il motivo. L’avrebbe capito quella mattina, quando le urla che annunciavano il furto di Margaret avrebbero cambiato per sempre la sua vita.

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