domenica 15 febbraio 2015

Medusa Café, capitolo 7 -
Le idi di Marzo

-Venerdì, giorno 7-

Quella sera, intorno alle 21.15
Il silenzio nell’ufficio di Cesare venne interrotto solo dal suono di nocche che battevano sul legno. A sentire quel rumore il padrone del locale trasalì, disorientato nel buio della stanza. Riuscì a bofonchiare un “Chi è?” poco convinto, mentre affondava il volto tra le mani, cercando di riprendere lucidità.
“Cesare, sono io. Posso entrare?”
Si strofinò ancora un secondo il viso con le mani, per poi risponderle sì. A quel punto si diresse lentamente verso lo scaffale, prendendo un altro bicchiere da portare sulla scrivania.
Entrando, Beth rimase spaesata dal buio. Chiuse velocemente la porta e pigiò l’interruttore della luce, illuminando così la figura di Cesare seduta mentre reggeva in mano un bicchiere che sembrava essere stato usato da poco. Lo sguardo corse sulla scrivania, dove troneggiava una bottiglia che conosceva bene.
“Quella non è…”
“Si, è la bottiglia di Bourbon del ‘73. Pensavo fosse il caso di approfittarne, non so quanto tempo avrò per godermela.”
“Ma sei impazzito? Te ne stai qui, al buio, a bere liquore di nascosto. Come se la situazione già non fosse tragica. Se ti scoprono-”
“Già, se mi scoprono. E se la lascio qui e qualcuno scopre che tenevo una bottiglia del genere nascosta nel mio ufficio? Credi che servirebbe a qualcosa dire che la tenevo conservata da quando abbiamo aperto questo posto, e che non ho rubato niente? Finiremmo nella merda comunque, tanto vale toglierla di mezzo prima che se ne accorgano, no?”
Beth scosse la testa, rimanendo in silenzio. Si avvicinò alla finestra, osservando il fiume d’acqua che circondava il locale e la pioggia che continuava imperterrita. Cesare la squadrò per un istante e notò sul suo volto un’espressione nervosa. Sorrise tra sè e sè, immaginando quanto potesse essere stressante quella situazione anche per lei, e per un istante provò tenerezza nei suoi confronti.
“Come mai non hai mangiato niente stasera?” chiese improvvisamente, rompendo di nuovo il silenzio.

Cesare non rispose subito. Guardava distrattamente il bicchiere, facendo ondeggiare il liquido al suo interno, quindi ne bevve il contenuto, arricciando le labbra.
“Diciamo semplicemente che non mi andava. Volevo rimanere un po’ da solo, per una volta.”
“Ti capisco. Immagino che sia stata una giornata dura soprattutto per te-”
“Già, immagini bene” la interruppe in modo secco lui, abbassando lo sguardo. “Tutto quello che poteva andare storto è andato storto, incominciando da stamattina. È stata veramente una giornata infernale.”

Quella mattina, intorno alle 8.30
“Non ce la faccio!”
Cesare camminava nervosamente avanti e indietro nel suo ufficio.
“Cesare, devi cercare di stare calmo-”
“CALMO?” l’uomo lo interruppe, afferrando Adam per il bavero e guardandolo minacciosamente. “Come pretendi che io stia calmo? Sono passate quante, 15 ore da quando sta lì fuori da sola, senza cibo né acqua? Siamo esseri umani, maledizione, non bestie! Spiegatemi perché diavolo non possiamo liberarla, direi che è passato abbastanza tempo. È una mia amica, non potete pretendere-”
“E invece dobbiamo, Cesare” disse Cicerone, cercando di farlo ragionare. “Io capisco la tua preoccupazione, ma le circostanze sono delicate PROPRIO perché è una tua amica, che tra l’altro ti ha aiutato nel fare le stesse regole che poi lei per prima non ha rispettato. Se ti mostri accondiscendente, gli altri potrebbero accusarti di voler fare favoritismi, ed è proprio quello che dobbiamo evitare. Non capisci? Dobbiamo dare modo alle persone di potersi fidare di noi.”
“E quindi mi suggerisci di lasciare lì fuori una povera donna, in un furgone esposto alla pioggia e SENZA cibo? Bella idea di giustizia.”
“Io ci ho dormito per giorni” si intromise Adam, staccandosi dalla presa di Cesare. “Ti posso assicurare che è sicuro, non entra acqua e il vano posteriore del furgone si trova proprio sotto il gazebo. L’unica cosa certa è che li sotto non rischia niente.”
“Si, ma-”
Lancelot si avvicinò a quel punto, mettendogli una mano sulla spalla, nel tentativo di confortarlo.
“Lo sappiamo che non è una scelta semplice, Cesare, io stesso probabilmente mi sentirei allo stesso modo al tuo posto, ma la situazione è delicata, capisci? Non possiamo rischiare di creare un clima instabile nel bar, altrimenti-”
Il discorso dell’uomo venne fermato da Beth, che aprì la porta. Il suo sguardo era evidentemente preoccupato.
“Potevi bussare, prima di entrare” le disse Cesare, il tono infastidito. “Che è successo?”
“C’è un problema con la radio!”
Uscirono velocemente dall’ufficio e la prima cosa che videro erano gli altri abitanti del Medusa Café raccolti attorno a Dante, che stringeva il telecomando cercando di capire che cosa si potesse fare. Cesare glielo strappò di mano, cercando di vedere cosa era successo. La radio era sintonizzata alla solita stazione, ma non si sentiva né musica né notizie. Solo un rumore assordante, interrotto a tratti da tentativi di ripresa di segnale. A quel punto, improvvisamente, non si sentì più nulla. Solo un rumore piatto, inquietante, che faceva piombare tutti nella disperazione di essere tagliati fuori dal mondo.
“Presto, Cesare, prova a cambiare stazione, magari da qualche parte c’è il segnale.”
“Ci sto provando, cazzo, è la seconda volta che faccio il giro delle frequenze! Non riesco a trovare nulla.”
“Non è possibile, ci deve essere qualcuno che riesce a trasmettere.”
“Vuoi controllare tu, Adam, visto che sei così sicuro? Non funziona un cazzo, nessuna frequenza, nessuna emittente, nulla di nulla.”
Cesare provò a controllare lo stereo dal quale acquisivano il segnale radio, nella speranza che si fosse staccato qualche cavo, che fosse stato premuto per sbaglio qualche pulsante, e invece tutto era in ordine. Preso dalla rabbia iniziò a prendere a pugni la macchina, non riuscì ad ottenere nulla.
Il clima nel bar iniziò a farsi teso. Adam inizialmente rimase immobile, sconvolto, quindi prese a urlare, disperato.
“E adesso che cazzo facciamo? Ci voleva solo questa! Non solo siamo chiusi in questo bar pidocchioso, bloccati da questa maledetta pioggia assassina, ma non funziona più neanche la radio. CI AVEVANO DETTO CHE LA SITUAZIONE ERA SOTTO CONTROLLO, PER DIO! Ora siamo tagliati fuori, e non sappiamo nemmeno come diamine uscirne.”
“Caro, ti prego, cerca di calmart-”
“Calmarmi il cazzo, Eva. Nostro figlio è lì fuori, te ne sei dimenticata? Nostro figlio, porca puttana, che è bloccato in una cazzo di scuola a una decina di chilometri da qui, non dall’altra parte del mondo, e non possiamo farci niente, Eva, NIENTE! Non dirmi di stare calmo, Cristo, perché la situazione è nera!”
“Sono d’accordo” si intromise Marley. “Qui sta andando tutto a puttane, ora quegli stronzi del governo non possono neanche dirci più niente, quando erano giorni che ci assicuravano che tutto si sistemava. Ve l’avevo detto, no, che la facevano troppo semplice. NON SANNO CHE DIAVOLO STA SUCCEDENDO. NESSUNO LO SA. E per quel che ne possiamo sapere magari ci sono loro dietro a tutto.”
“Eccolo che inizia” disse Dante, sospirando.
“Certo, tu sai sempre tutto, vero Hemingway? Ci stanno prendendo in giro! Più passa il tempo, più penso che sia colpa loro. Magari è successo tutto per via di tutto il bario che sversano nell'atmosfera, o qualche cazzo di esperimento che stanno facendo sotto banco, e ora siamo tutti nella merda.”
Dante alzò lo sguardo, sconsolato nel sentire quelle che reputava delle enormi sciocchezze. A quel punto intervenne Maria, continuando ad affermare che era tutta colpa del Diavolo, che c’era lui dietro tutto questo, dietro alla pioggia, dietro alla morte di Tony, persino dietro alla radio che smetteva di funzionare, e si perdeva in deliri riguardanti una sua possibile presenza in quel posto. Madeleine cercò di calmarla, vedendo che si stava lasciando trascinare dalla rabbia e dalla disperazione e temendo per la sua salute.
Impaurito dalle urla, Raider prese ad abbaiare nervosamente, spaventando Lucrezia, la quale iniziò ad insultare il cane, chiedendo nuovamente di cacciarlo, affermando che dava soltanto fastidio. La cosa innervosì Beth, che iniziò a discutere animatamente con lei, affermando nuovamente che il cane non si muoveva da lì e che se le dava così fastidio poteva benissimo andarsene lei.
Cesare rimase qualche secondo ad osservare la confusione che si era creata, non sapendo bene cosa fare. Invitò le persone nel bar alla calma, ma non gli diedero ascolto. Tentò di calmare perlomeno Beth, trattenendola per il braccio e sperando che almeno lei lo stesse a sentire, ma la donna si scrollò di dosso la mano di Cesare, senza considerarlo. La situazione stava degenerando.
A quel punto si schiarì la voce, pronto ad urlare per farsi sentire.
“Adesso bast-”
“Adesso basta!” urlò Cicerone. “Lo capisco che avete tutti quanti paura. Dannazione, ho paura anche io, sarebbe strano non averne, ma la situazione è questa, e se ci mettiamo a fare discussioni e a darci addosso l’un l’altro può soltanto peggiorare. E parlo in particolare con voi due” indicò Adam e Marley che, colpiti dal rimprovero, si ammutolirono. “La radio non funziona più e con essa abbiamo perso la possiblità di avere notizie dall’esterno, in particolare riguardo a quanto ancora dovremo rimanere bloccati qui. Viste le condizioni, forse è il caso di prendere qualche accorgimento. Dovremmo razionare il cibo perché duri abbastanza, e credo che ci servirebbe fare un inventario, così da essere più organizzati. Insomma, direi che eventuali discussioni su chi o cosa abbia causato questa pioggia possono aspettare, non credete?”
Le parole del giovane parvero richiamare all’ordine le persone, che rimasero in silenzio ad osservarlo, aspettando di sapere che cosa consigliasse. Cesare rimase in disparte, osservando la scena con un’espressione infastidita.
“Bene, allora facciamo colazione e mettiamoci al lavoro!” concluse Cicerone, andando a prendere qualcosa da mangiare dalla dispensa. Le persone annuirono silenziosamente, quindi seguirono il suo esempio.
Cesare prese soltanto una barretta di cioccolata, mentre gli altri si servivano per la colazione. Dopo aver aspettato che ognuno avesse preso posto chiamò Cicerone, invitandolo al suo tavolo per parlare.
“Dì un po’, che ti sei messo in testa?” gli disse, non appena arrivò, con un tono furibondo. Quelle parole incontrarono il volto perplesso di Cicerone, che gli fece segno di non capire.
“Guarda che l’ho notato che da quando siamo chiusi qui dentro stai cercando di attirare l’attenzione” continuò, guardandolo negli occhi. “A che gioco stai giocando? Che vuoi ottenere?”
“Non so di cosa tu stia parlando” gli rispose Cicerone. Sembrava infastidito dalle accuse dell’uomo, e fece per alzarsi dalla sedia. Cesare a quel punto si alzò, afferrandolo per un braccio ed osservandolo negli occhi.
“Poco fa stavo cercando di riprendere il controllo della situazione, ma sei intervenuto tu, con la tua bella parlantina, ed improvvisamente tutto si è risolto. Un atteggiamento del genere, però, non mi convince affatto. Che cosa speri di ottenere?”
“Ho solo provato a gestire la situazione, come hai fatto tu” gli rispose calmo Cicerone, staccando la mano di Cesare dal suo braccio. “La differenza è che io ci sono riuscito, senza perdermi d’animo di fronte alle urla della gente. Faccio solo quello che posso. Non prendertela con me se non sei in grado di governare queste persone.”
Le parole del giovane lo colpirono come un pugno in faccia. Cicerone a quel punto si alzò freddamente e tornò al tavolo con gli altri studenti. Cesare si sentì bruciare dalla rabbia, osservandolo mentre se ne andava tutto impettito, come se avesse vinto una gara. Strappò violentemente via la barretta di cioccolato dall’involucro dorato e la prese a morsi, cercando di soffocare l’irritazione.

Quella sera, intorno alle 21.20
“E allora, lì fuori come sta andando?”
Cesare prese nuovamente la bottiglia, riempiendo i due bicchieri e porgendone uno a Beth, che si era ora seduta sulla poltroncina di fronte alla scrivania.
“Come potrebbe mai andare?” gli rispose lei, ridendo e ringraziandolo per il drink. “Cicerone ha fatto il suo bel discorsetto prima che iniziasse la cena, promettendo di mantenere l’ordine e di fare in modo che si possa avere una pacifica convivenza. Insomma, un mare di cazzate che fa presa sulla gente. Erano tutti molto tranquilli, a dir la verità. Certo, a parte Margaret, che se ne stava da sola.”
“Lo immagino. Hai provato a parlarle?”
“Ho provato ad avvicinarmi, ma non mi ha degnato di uno sguardo. Mi ha intimato di andarmene, e così ho desistito. Alla fine ho mangiato con Ulisse e Dante. Sempre meglio che stare vicino a Marley o Maria, no?”
“Decisamente. Che ne pensano Dante e Ulisse della situazione?”
“Si sono detti dispiaciuti, ma sai come sono fatti. Fin dall’inizio sono sempre stati per conto loro e, sinceramente, sto iniziando a pensare che abbiano fatto bene, visto com’è andata a finire.”
Cesare sorrise amaramente, annuendo all’affermazione della donna, quindi vuotò l’ennesimo bicchiere.
“Ah, mi ero dimenticata, a quanto pare Cicerone ha investito ufficialmente i suoi galoppini.”
“E chi sarebbero?” le chiese Cesare, osservandola incuriosito.
“Adam e Marley. Dalla padella alla brace.”
“Dio santo” disse Cesare, scuotendo la testa. “Riesco a capire la scelta di Adam, nonostante negli ultimi giorni stia vedendo anche lui particolarmente nervoso, ma Marley! Stiamo parlando di Marley, per dio, quello che qualche giorno fa stava cercando di convincerci che fosse tutto un enorme complotto mondiale. Ed ora ce lo ritroviamo ad aiutare a gestire le persone del bar. E gli altri? Non hanno detto niente?”
“C’è stato qualche mugugno riguardo Marley, ma nulla di serio. Chi più, chi meno, alla fine tutti quanti hanno accettato le scelte di Cicerone. Anche perché ormai-”
“Ho capito, nessuno si oppone a Re Cicerone” concluse Cesare, amareggiato, tornando ad osservare fuori dalla finestra.

Quel pomeriggio, intorno alle 14.20
“Cesare, abbiamo un problema!”
L’entrata irrequieta di Dante interruppe il discorso tra Cesare e Beth. Era passata poco meno di un’ora dalla pausa pranzo, e i due stavano discutendo riguardo quello che era successo durante la colazione. Quando vide il volto visibilmente scosso del nuovo entrato, il padrone del bar non riuscì a non preoccuparsi.
“Che tipo di problema?” gli chiese, alzandosi dalla sedia e avvicinandosi allo scrittore. “Avanti, Dante, parla, che sta succedendo?”
“È il gazebo” rispose lui. “Si sentono dei rumori strani, come se stesse iniziando a crollare.”
“Oh cazzo, MARGARET!”
Cesare corse fuori come una furia, in preda alla preoccupazione, bofonchiando tra sé e sé un “io lo sapevo che non era sicuro lì fuori, lo avevo detto, cazzo”. Arrivato all’ingresso del bar, vide che sotto il gazebo si erano accalcate tutte le persone, compresi Lancelot e Cicerone. Si avvicinò a quest’ultimo, chiedendogli di spiegargli che stesse succedendo.
“Ma non lo so,” gli rispose lui, “siamo arrivati qui e già si sentivano questi rumori inquietanti.” Indicò uno dei pilastri del gazebo, che sembrava tremolante ed emetteva suoni come se fosse in procinto di rompersi. “Ecco, visto?” gli disse. “È da un paio di minuti che fa così.”
“Un paio di minuti?” lo apostrofò Cesare, furibondo. “E me lo venite a dire solo ORA?”
Non diede al giovane il tempo di rispondere che già stava cercando di capire cosa fare. Il panico si iniziò a impossessare di lui. Si guardò attorno, cercando di capire da dove venisse il problema, magari il peso dell’acqua, che continuava da una settimana, si stava a poco a poco dimostrando troppo gravoso per quel gazebo. O magari da qualche parte l’acqua stava riuscendo a penetrare e il legno aveva iniziato a marcire. Provò a toccare il pilastro in questione, solo per notare che era completamente asciutto, e che anche l’altro albero ora stava iniziando a vibrare sinistramente. A quel punto una parte del gazebo iniziò a cedere, facendo un rumore infernale.
“Tiratemi fuori di qui!” iniziò ad urlare Margaret, spaventata da quello che stava succedendo. Cesare iniziò a sentirsi sotto pressione, mentre gli altri abitanti del bar gli urlavano di fare qualcosa, di muoversi. Si guardò attorno e finalmente notò la spranga che stava per usare il secondo giorno proprio per aprire il furgone. Senza pensarci su troppo, la afferrò con forza e si avvicinò alla maniglia, dando un primo, vigoroso colpo. Stava per colpirlo di nuovo, quando la sua mano fu trattenuta da qualcuno.
“Cicerone, che cazzo stai facendo?! LASCIAMI, pezzo di idiota, abbiamo poco tempo!”
“Bada a come parli, Cesare!” gli rispose a tono il giovane, guardandolo rabbioso negli occhi. “Piuttosto, cosa diavolo credi di fare con quella spranga? Se rompi la serratura dopo come la tiriamo fuori?”
“Ah, bene, improvvisamente sembra che te ne importi qualcosa! E che alternative avremmo, sentiamo.”
“Cesare, abbiamo le chiavi” si intromise Dante, mostrandogliele. “Erano nel tuo ufficio, pensav-”
“Quello che pensi ce lo dirai dopo!” lo interruppe malamente Marley, strappandogliele di mano. Le infilò velocemente nella serratura e provò a girare la maniglia, che dava forte resistenza.
“Avanti, muoviti!” gli disse Cesare, inquieto. “Non abbiamo tempo da perdere.”
“Ci sto provando, non vedi? Sembra bloccata!”
Al sentire quelle parole, Cesare si sentì gelare il sangue, pensando alle parole che aveva detto Cicerone. Rimase ad osservare attonito Marley che provava ad aprire la porta, con l’aiuto di Cicerone e Dante. Dopo secondi che sembravano ore, si sentì finalmente un accenno di movimento. Diedero un altro forte strattone alla maniglia che finalmente cedette, permettendo a Margaret di fiondarsi fuori dal furgone, rovinando a terra con un tonfo. Sembrava particolarmente provata. Cesare tentò di darle una mano ad alzarsi, ma lei lo allontanò, correndo via dal gazebo zoppicando. Tutti quanti seguirono il suo esempio, lasciando l’esterno del bar completamente deserto, con i suoi rumori inquietanti.
Margaret si mise a sedere su uno sgabello, vicino al bancone. Il volto, pallido, palesava il suo stato di shock.
“Maggie, va tutto bene?” le chiese Cesare, avvicinandosi visibilmente preoccupato. “Volevo dirti che-”
“No, Cesare, non va affatto bene” gli rispose lei, alzandosi adirata. “E sinceramente di quello che mi vuoi dire non me ne può fregar di meno. Mi avete lasciato lì fuori e ho rischiato di morire, per Dio! TU mi hai mandato lì fuori, sotto quella maledetta pioggia, nonostante abbia cercato in tutti i modi di spiegarti che non avevo fatto niente. TE L’HO DETTO MILLE VOLTE, PORCA PUTTANA, e tu mi conosci, Cesare. Sai bene che non sono il tipo che inventa scuse, ma non ti sei voluto fidare. E come se non bastasse stavi rischiando di bloccarmi lì dentro, sotto quel cazzo di gazebo che, perché non sei riuscito per UNA VOLTA a mantenere il sangue freddo e comportarti da uomo! Quindi no, Cesare, risparmiami le scuse, risparmiami le spiegazioni, non me ne frega un accidente. Non ho intenzione di parlare con un senza palle che non riesce neanche a guidare una decina di persone!”
Si alzò furibonda, dirigendosi verso le scale, urlando insulti contro tutti e ritirandosi al piano di sopra. Le persone del bar rimasero ad osservarla, con un’espressione confusa dipinta sul volto. Sapevano che in fondo erano tutti quanti responsabili di quell’incidente, ma l’idea che fosse necessario per il bene continuava a serpeggiare. Rimasero in silenzio per qualche minuto, un silenzio interrotto dalle parole di Lancelot, che attirarono l’attenzione di tutti.
“Per quanto mi dispiaccia ammetterlo, purtroppo temo che Margaret non abbia tutti i torti. Penso che la situazione ci stia a poco a poco sfuggendo di mano. Forse è veramente il caso di cambiare qualcosa.”
“Che cosa intendi?” gli chiese Cesare, confuso da quella questione.
“Lancelot ha ragione,” continuò Cicerone, senza considerare la sua domanda, “è evidente che qualcosa non sta funzionando. Forse è il caso di affidarci a qualcuno che sia maggiormente in grado di prendere decisioni difficili in questa situazione.”
“Esattamente, credo che abbiamo bisogno di qualcun altro che ci guidi, visto che, dopo gli eventi di stamattina, la questione su quanto tempo dovremo rimanere qui è ancora più incerta.”
“Perché non ci pensi tu?” suggerì Madeleine, timidamente. Lancelot le sorrise imbarazzato.
“Io? Nah, non credo proprio di essere in grado di sopportare la pressione che-”
“Aspettate un attimo” lo interruppe Cesare. “State veramente discutendo su chi deve prendere il comando? QUESTO È IL MIO BAR, MALEDIZIONE! Non credete di stare abusando della mia pazienza?”
“Questo non è soltanto il tuo bar adesso!” gli rispose Cicerone, infastidito dal suo atteggiamento. “Ci siamo dentro tutti, purtroppo, e le circostanze non sono più quelle di una volta. Ragionare in questo modo non ci porterà da nessuna parte. Devi farti da parte, Cesare, mi dispiace.”
Si sentì un mormorio proveniente dal gruppo di persone. “Ha ragione” sussurrò qualcuno, altri guardavano Cesare con uno sguardo insicuro, come a voler dire che erano dispiaciuti. Il proprietario del bar non ci vide più.
“Sapete una cosa, fate quello che cazzo volete. Io vado fuori, queste discussioni da poveracci le lascio a voi.” Si allontanò ad ampi passi, spingendo bruscamente le persone e uscendo sotto il gazebo.
Rimase qualche minuto lì fuori, ad osservare la situazione. In pochi minuti, tutta la parte anteriore del riparo iniziò a crollare, impedendo del tutto il passaggio verso il furgone. Dopo un’oretta Cesare sentì dei passi dietro di sé. Si girò e vide che era Beth, il volto sconfortato, che si avvicinava lentamente. Gli disse che Cicerone era stato scelto come leader, che aveva tentato in tutti i modi di difenderlo, ma che non c’era stato nulla da fare. Per tutta risposta Cesare le fece cenno di non continuare, dicendole che andava bene così. Rimasero qualche secondo in silenzio, lì fuori, ad osservare il disastro che era avvenuto.
“Ti ricordi com’era prima?” le disse poi, con la voce spezzata. “Era tutto tranquillo. Fuori dal bar c’erano sempre quei teppisti che giocavano a calcio, urlando come dei forsennati. La mattina presto aprivamo il bar, mettendo i cornetti nella vetrina, ed era una routine noiosa, sicuramente, ma accogliente nel suo ripetersi. I clienti erano sempre educati, e c’era sempre modo di scambiare quattro chiacchiere con qualcuno di loro. Era tutto così… stabile. E ora guarda che sta succedendo. Mi tolgono il bar dalle mani perché, a quanto pare, non sono adatto a gestirlo. Il gazebo è crollato sotto i colpi della pioggia. Margaret...Margaret a quanto pare mi odia.”
Si girò nuovamente verso Beth, il volto solcato dalle lacrime. “Che cosa abbiamo sbagliato, Elizabeth?” le chiese, lo sguardo intristito. “Che cosa possiamo fare?”

Quella sera, intorno alle 21.25
Cesare versò gli ultimi due bicchieri, lasciando la bottiglia vuota sulla scrivania, e ritornò di fronte alla finestra. Era calato nuovamente il silenzio, e l’aria sembrava essersi fatta particolarmente pesante nella stanza. Osservando il riflesso della ragazza nel vetro notò che passava nervosamente le dita sul bicchiere.
Alla fine Beth decise di parlare.
“Cesare,” esordì, interrompendosi nuovamente, “volevo soltanto dirti di nuovo che mi dispiace. Te l’ho detto, ci ho provato in tutti i modi a farli ragionare. Gli ho ricordato dell’ospitalità che avevi offerto loro, che siamo tutti tuoi debitori e che, in fondo, hai tenuto sotto controllo la situazione fino ad ora, ma non hanno voluto darmi retta. Anzi, mi hanno chiesto di farmi da parte. Essendo tua amica, a quanto pare, non sono affidabile.”
“Lo so, Beth, lo so che ce l’hai messa tutta” le disse lui dolcemente. “Non serve assolutamente che ti scusi. Sai, ci ho riflettuto un po’ stasera, e ti devo dire la verità? Forse è una liberazione.”
“Che intendi?” gli chiese lei, confusa dalle sue parole. Cesare si girò, appoggiandosi sulla scrivania e guardandola negli occhi.
“Da quando tutto questo è iniziato non ho mai potuto avere veramente paura. Ti ricordi quando Tony è morto, o quando la radio dava le prime notizie, o anche stamattina, quando tutto sembrava andare a puttane? Tutti potevano permettersi di perdere la calma, di sfogarsi, tutti tranne me. Eppure ho anche io persone lì fuori di cui non ho notizie da una settimana. Io ho visto un amico morire davanti ai miei occhi, non loro. Ma questo è il mio bar, e la responsabilità di mantenere l’ordine era mia. Quindi ho dovuto cercare di mantenere il controllo, di soffocare le paure, di fare buon viso a cattivo gioco, perché quelle persone lì fuori dipendevano da me. Beh, ora sono come tutti gli altri. Posso finalmente smettere di fingere, smettere di essere forte. Quindi sì, mi sono tolto un peso. La responsabilità di dover tenere tutto a bada è soffocante, Beth, e adesso la patata bollente è passata a Cicerone. Vedremo se riuscirà a sopportare il peso della corona-”
Le parole di Cesare vennero interrotte dal suono di una mano che bussava. Senza aspettare risposta, Cicerone entrò dentro, bisbigliando a Marley e Adam di aspettarlo lì fuori. Si avvicinò al padrone del bar, osservandolo spavaldo.
“Mi dispiace interrompere la discussione, Cesare,” disse, sorridendogli, “ma le persone qua fuori vorrebbero che liberassi il tuo ufficio. Volevo lasciarti la notte per sgomberare, ma a quanto pare insistono perché tu dorma fuori, adesso.”
Cesare lo fulminò con lo sguardo, avvicinandosi minacciosamente.
“Ma stiamo scherzando?!” esplose, facendosi rosso in viso. “Non credi che si sta passando il segno adesso?”
“Te l’ho detto” gli rispose lui, freddamente. “Non è stata un’idea mia. Penso che gli altri vogliano vedere qualcosa cambiare fin da subito e, sinceramente, non voglio deluderli. Mi dispiace, Cesare.”
Le parole del giovane lasciarono Cesare amareggiato. Per un istante pensò di uscire fuori dalla stanza, di discutere apertamente con quegli ingrati che stavano là fuori, ma l’idea si spense quasi immediatamente. Si stava convincendo che gli altri si erano soltanto lasciati manovrare dalla paura e dal modo di fare di Cicerone, e sapeva che uscire e dare di matto sarebbe servito a poco.
“Facciamo così” disse quindi Cicerone, avvicinandosi. “Se preferisci possiamo uscire e discutere con tutti quanti dell’intera questione, compresa quella bottiglia che vedo sul tavolo. Lascio a te la scelta.”
Il proprietario del bar lo osservò attonito, non sapendo cosa dire. Beth provò a dire qualcosa, ma Cesare la fermò prontamente, sussurandole di lasciar stare.
“Va bene, Cicerone,” gli disse, sospirando, “come dici tu. Usciamo, Beth.”
La ragazza sembrava titubante, ma, vedendo Cesare che varcava la porta, alla fine decise di muoversi, lanciando uno sguardo di odio a Marley che le sorrideva imbarazzato. Seguì Cesare fino all’esterno del bar, ignorando gli sguardi curiosi delle persone ancora intente a mangiare. Una volta fuori, Cesare si sentì soffocare dalla frustrazione. Gli occhi si arrossarono, e sentiva il bisogno compulsivo di affondare le unghie nel volto. Era sconvolto, e Beth se ne accorse.
“Lo so che è dura, Cesare,” disse lei, poggiandogli una mano sulla spalla, “ma era una situazione senza uscita. Vorrei poter dire qualcosa di utile, ma-”
Cesare interruppe la donna farfugliando parole che Beth non riuscì a capire. La ragazza si avvicinò, chiedendogli di ripetere cosa avesse detto, e lui si sollevò, guardandola dritta negli occhi.
“La cocaina di Tony, Beth” gli disse quindi, col tono basso. “La cocaina è nascosta nel mio ufficio.”


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