-Venerdì, giorno 7-
Quella sera, intorno alle
21.15
Il
silenzio nell’ufficio di Cesare venne interrotto solo dal suono di nocche che
battevano sul legno. A sentire quel rumore il padrone del locale trasalì,
disorientato nel buio della stanza. Riuscì a bofonchiare un “Chi è?” poco
convinto, mentre affondava il volto tra le mani, cercando di riprendere
lucidità.
“Cesare,
sono io. Posso entrare?”
Si
strofinò ancora un secondo il viso con le mani, per poi risponderle sì. A quel
punto si diresse lentamente verso lo scaffale, prendendo un altro bicchiere da
portare sulla scrivania.
Entrando,
Beth rimase spaesata dal buio. Chiuse velocemente la porta e pigiò
l’interruttore della luce, illuminando così la figura di Cesare, seduta mentre
reggeva in mano un bicchiere che sembrava essere stato usato da poco. Lo
sguardo corse sulla scrivania, dove troneggiava una bottiglia che conosceva
bene.
“Quella
non è…”
“Si,
è la bottiglia di Very Very Old Fitzgerald del '66. Pensavo fosse il caso di approfittarne, non
so quanto tempo avrò per godermela.”
“Ma
sei impazzito? Te ne stai qui, al buio, a bere liquore di nascosto. Se ti scoprono-”
“Già,
se mi scoprono. E cosa pensi che succedere se qualcuno scopre che tenevo una bottiglia
del genere nascosta nel mio ufficio? Credi che servirebbe a qualcosa dire che
la tenevo conservata da quando abbiamo aperto questo posto, e che non ho rubato
niente? Finiremmo nella merda comunque, tanto vale toglierla di mezzo prima che
se ne accorgano, no?”
Beth
scosse la testa, rimanendo in silenzio. Si avvicinò alla finestra, osservando
il fiume d’acqua che circondava il locale e la pioggia che continuava
imperterrita. Cesare la squadrò per un istante e notò sul suo volto
un’espressione nervosa. Sorrise tra sé e sé, immaginando quanto anche lei potesse essere provata dagli ultimi avvenimenti, e per un istante provò tenerezza
nei suoi confronti.
“Come
mai non hai mangiato niente stasera?” chiese improvvisamente, rompendo di nuovo
il silenzio.
Cesare
non rispose subito. Guardava distrattamente il bicchiere, facendo ondeggiare il
liquido al suo interno, quindi ne bevve il contenuto, arricciando le labbra.
“Diciamo che non mi andava. Volevo solamente rimanere un po’ da solo, per l'ultima volta.”
“Ti
capisco. Immagino che sia stata una giornata dura soprattutto per te-”
“Già,
immagini bene” la interruppe in modo secco lui, abbassando lo sguardo. “Tutto
quello che poteva andare storto è andato storto, incominciando da stamattina. È
stata veramente una giornata infernale.”
Quella mattina, intorno alle
8.30
“Non
ce la faccio!”
Cesare
camminava nervosamente avanti e indietro nel suo ufficio.
“Cesare,
devi cercare di stare calmo-”
“CALMO?”
l’uomo lo interruppe, afferrando Adam per il bavero e guardandolo
minacciosamente. “Come pretendi che io stia calmo? Sono passate quante, 15 ore
da quando sta lì fuori da sola, senza cibo né acqua? Siamo esseri umani,
maledizione, non bestie! Quanto tempo ancora pensate sia necessario tenerla ancora rinchiusa? È una mia amica, non potete pretendere-”
“E
invece dobbiamo, Cesare” disse Cicerone, cercando di farlo ragionare. “Io
capisco la tua preoccupazione, ma PROPRIO perché è una tua amica, che tra l’altro ti ha aiutato nel fare le stesse regole che lei in primis non ha rispettato, non possiamo chiudere un occhio. Se ti mostri accondiscendente, gli altri
potrebbero accusarti di voler fare favoritismi, ed è proprio quello che
dobbiamo evitare. Non capisci? Dobbiamo dare modo alle persone di potersi
fidare di noi.”
“E
quindi mi suggerisci di lasciare lì fuori una povera donna, in un furgone
esposto alla pioggia e SENZA cibo? Bella idea di giustizia.”
“Io
ci ho dormito per giorni” si intromise Adam, staccandosi dalla presa di Cesare.
“Ti posso assicurare che è sicuro, non entra acqua e il vano posteriore del
furgone si trova proprio sotto il gazebo. L’unica cosa certa è che li sotto non
rischia niente.”
“Si,
ma-”
Lancelot
si avvicinò a quel punto, mettendogli una mano sulla spalla, nel tentativo di
confortarlo.
“Lo
sappiamo che non è una scelta semplice, Cesare, io stesso probabilmente mi
sentirei allo stesso modo al tuo posto, ma la situazione è delicata, capisci?
Non possiamo rischiare di creare un clima instabile nel bar, altrimenti-”
Il
discorso dell’uomo venne fermato da Beth, che aprì la porta. Il suo sguardo era
evidentemente preoccupato.
“Potevi
bussare, prima di entrare” le disse Cesare, il tono infastidito. “Che è
successo?”
“C’è
un problema con la radio!”
Uscirono
velocemente dall’ufficio e la prima cosa che videro erano gli altri abitanti
del Medusa Café raccolti attorno a Dante, che stringeva il telecomando cercando
di capire che cosa si potesse fare. Cesare glielo strappò di mano, cercando di
vedere cosa fosse successo. La radio era sintonizzata alla solita stazione, ma
non si sentiva né musica né notizie. Solo un rumore assordante, interrotto a
tratti da tentativi di ripresa di segnale. A un certo punto, improvvisamente, non
si sentì più nulla. Solo un rumore piatto, inquietante, che fece piombare
tutti nella disperazione di essere tagliati fuori dal mondo.
“Presto,
Cesare, prova a cambiare stazione, magari da qualche parte c’è il segnale.”
“Ci
sto provando, cazzo, è la seconda volta che faccio il giro delle frequenze! Non
riesco a trovare nulla.”
“Non
è possibile, ci deve essere qualcuno che riesce a trasmettere.”
“Vuoi
controllare tu, Adam, visto che sei così sicuro? Non funziona un cazzo, nessuna
frequenza, nessuna emittente, nulla di nulla.”
Cesare
provò a controllare lo stereo dal quale acquisivano il segnale radio, nella
speranza che si fosse staccato qualche cavo, che fosse stato premuto per
sbaglio qualche pulsante, e invece tutto era in ordine. Preso dalla rabbia
iniziò a prendere a pugni la macchina, ma non riuscì ad ottenere nulla.
Il
clima nel bar iniziò a farsi teso. Adam inizialmente rimase immobile,
sconvolto, quindi prese a urlare, disperato.
“E
adesso che cazzo facciamo?! Non solo siamo chiusi in
questo bar pidocchioso, bloccati da questa maledetta pioggia assassina, ma non
funziona più neanche la radio. CI AVEVANO DETTO CHE LA SITUAZIONE ERA SOTTO
CONTROLLO, PER DIO! Ora siamo tagliati fuori, e non sappiamo nemmeno come
diamine uscirne.”
“Caro,
ti prego, cerca di calmart-”
“Calmarmi
un corno, Eva. Nostro figlio è lì fuori, te ne sei dimenticata? Nostro figlio,
porca puttana, che è bloccato in una scuola a meno di dieci chilometri
da qui, non dall’altra parte del mondo! E non possiamo farci niente, Eva,
NIENTE! Qui non c'è nulla per cui stare calmi, per Dio.”
“Sono
d’accordo” si intromise Marley. “Qui sta andando tutto a puttane, ora quegli
stronzi del governo non possono neanche parlarci, quando gli scorsi giorni erano lì a dire di stare calmi, che tutto si sarebbe sistemato, che era tutto sotto controllo. Eccolo il controllo! Lo sapevo, ve l’avevo detto che la
facevano troppo semplice. NON SANNO CHE COSA FARE, questa è la verità! NESSUNO LO SA! E per quel che ne possiamo sapere magari ci sono loro dietro a tutto questo.”
“Eccolo
che inizia” disse Dante, sospirando.
“Certo,
tu sai sempre tutto, vero Hemingway? Ci stanno prendendo in giro! Più passa il
tempo, più penso che sia colpa loro. Magari è successo tutto per via di tutto
il bario che sversano nell'atmosfera, o qualche cazzo di esperimento che stanno
facendo sotto banco, e ora siamo tutti nella merda!”
Dante
alzò lo sguardo, sconsolato nel sentire quelle che reputava delle enormi
sciocchezze. A quel punto intervenne Maria, continuando ad affermare che era
tutta colpa del Diavolo, che c’era lui dietro tutto questo, dietro alla
pioggia, dietro alla morte di Tony, persino dietro alla radio che smetteva di
funzionare, e si perdeva in deliri riguardanti una sua possibile presenza in
quel posto. Madeleine cercò di calmarla, vedendo quanto si stesse lasciando
trascinare dalla rabbia e dalla disperazione e temendo per la sua salute.
Impaurito
dalle urla, Raider prese ad abbaiare nervosamente, spaventando Lucrezia, la
quale iniziò ad insultare il cane, chiedendo nuovamente di cacciarlo,
affermando che dava soltanto fastidio. La cosa innervosì Beth, che iniziò a
discutere animatamente con lei, affermando nuovamente che il cane non si
muoveva da lì e che se le dava così fastidio poteva benissimo andarsene lei.
Cesare rimase qualche secondo ad osservare la
confusione che si era creata, non sapendo bene cosa fare. Invitò le persone nel
bar alla calma, ma non gli diedero ascolto. Tentò di calmare perlomeno Beth,
trattenendola per il braccio e sperando che almeno lei lo stesse a sentire, ma
la donna si scrollò di dosso la mano di Cesare, senza considerarlo. La
situazione stava degenerando.
A
quel punto si schiarì la voce, pronto ad urlare per farsi sentire.
“Adesso
bast-”
“Adesso
basta!” urlò Cicerone. “Lo capisco che avete tutti quanti paura. Dannazione, ho
paura anche io, sarebbe strano non averne, ma urlarci addosso e litigare non è di certo una soluzione e soprattutto non ci permette di pensare lucidamente. E parlo in particolare con voi due” indicò Adam e Marley che,
colpiti dal rimprovero, si ammutolirono. “La radio non funziona più e con essa
abbiamo perso la possibilità di avere notizie dall’esterno, in particolare
riguardo a quanto ancora dovremo rimanere bloccati qui. Viste le condizioni,
dobbiamo prendere qualche accorgimento, iniziare a prepararci alla possibilità che dovremo stare qui più del previsto, anche settimane, se necessario. Dobbiamo razionare il cibo
perché duri abbastanza, fare un inventario, essere più organizzati. Insomma, direi che eventuali discussioni su chi o cosa
abbia causato questa pioggia possono aspettare, non credete?”
Le
parole del giovane parvero richiamare all’ordine le persone, che rimasero in
silenzio ad osservarlo, aspettando di sapere che cosa consigliasse. Cesare
rimase in disparte, osservando la scena con un’espressione infastidita.
“Bene,
allora facciamo colazione e mettiamoci al lavoro!” concluse Cicerone, andando a
prendere qualcosa da mangiare dalla dispensa. Le persone annuirono
silenziosamente, quindi seguirono il suo esempio.
Cesare
prese soltanto una barretta di cioccolata, mentre gli altri si servivano per la
colazione. Dopo aver aspettato che ognuno avesse preso posto chiamò Cicerone,
invitandolo al suo tavolo per parlare.
“Dì
un po’, che ti sei messo in testa?” gli disse, non appena arrivò, con un tono
furibondo. Quelle parole incontrarono il volto perplesso di Cicerone, che gli
fece segno di non capire.
“Guarda
che l’ho notato che da quando siamo chiusi qui dentro stai cercando di attirare
l’attenzione” continuò, guardandolo negli occhi. “A che gioco stai giocando?
Che vuoi ottenere?”
“Non
so di cosa tu stia parlando” gli rispose Cicerone. Sembrava infastidito dalle
accuse dell’uomo, e fece per alzarsi dalla sedia. Cesare a quel punto si alzò,
afferrandolo per un braccio ed osservandolo negli occhi.
“Sto parlando di poco fa, di quando tutti quanti si stavano dando addosso e stavo per parlare, per cercare di gestire tutto. E invece ti sei intromesso tu, con la tua bella parlantina, ed improvvisamente tutto si è
risolto. Un atteggiamento del genere, però, non mi convince affatto. Che cosa
speri di ottenere?”
“Ho
solo provato a gestire la situazione, come hai provato a fare tu finora” gli rispose calmo
Cicerone, staccando la mano di Cesare dal suo braccio. “La differenza è che io
ci sono riuscito, senza perdermi d’animo di fronte alle urla della gente.
Faccio solo quello che posso. Non prendertela con me se non sei in grado di
gestire le persone nel tuo stesso bar.”
Le
parole del giovane lo colpirono come un pugno in faccia. Cicerone a quel punto
si alzò freddamente e tornò al tavolo con gli altri studenti. Cesare si sentì
bruciare dalla rabbia, osservandolo mentre se ne andava tutto impettito, come
se avesse vinto una gara. Strappò violentemente via la barretta di cioccolato
dall’involucro dorato e la prese a morsi, cercando di soffocare l’irritazione.
Quella sera, intorno alle
21.20
“Che dicono lì fuori?”
Cesare
prese nuovamente la bottiglia, riempiendo i due bicchieri e porgendone uno a
Beth, che si era ora seduta sulla poltroncina di fronte alla scrivania.
“Indovina?” gli rispose lei sarcastica, ridendo e ringraziandolo per il drink.
“Cicerone ha fatto il suo bel discorsetto prima che iniziasse la cena, ha promesso di mantenere l’ordine, di poter essere una figura di riferimento e che avrebbe fatto di tutto affinché si potesse avere una
pacifica convivenza. Insomma, promesse vuote che fanno presa sulla gente, sembrava una campagna elettorale. Erano tutti molto tranquilli, a dir la verità. Tranne Margaret... lei è rimasta un po' in disparte, cupa.”
“Lo
immagino. Hai provato a parlarle?”
“Ho
provato ad avvicinarmi, ma non mi ha degnato di uno sguardo. Mi ha intimato di
andarmene, e così ho desistito. Alla fine ho mangiato con Ulisse e Dante.
Sempre meglio che stare vicino a Marley o Maria, no?”
“Decisamente.
Che ne pensano Dante e Ulisse della situazione?”
“Si
sono detti dispiaciuti, ma sai come sono fatti. Se ne stanno sempre per conto loro e, sinceramente, sto iniziando a pensare che facciano bene, visto com’è andata a finire.”
Cesare
sorrise amaramente, annuendo all’affermazione della donna, quindi vuotò
l’ennesimo bicchiere.
“Ah,
mi ero dimenticata, a quanto pare Cicerone ha nominato ufficialmente i suoi
galoppini.”
“E
chi sarebbero?” le chiese Cesare, osservandola incuriosito.
“Adam
e Marley. Dalla padella alla brace.”
“Dio
santo” disse Cesare, scuotendo la testa. “Riesco a capire la scelta di Adam,
per quanto anche lui si stia dimostrando una leggera testa di cazzo,
ma Marley! Lo stesso Marley che ogni giorno se ne esce con teorie astruse su quanto sia tutto un complotto? Ce lo ritroviamo ad aiutare a gestire le persone del bar, pensa te. E gli altri? Non
hanno detto niente?”
“C’è
stato qualche mugugno riguardo Marley, ma nulla di serio. Chi più, chi meno,
alla fine tutti quanti hanno accettato le scelte di Cicerone. Anche perché
ormai-”
“Ho
capito, nessuno si oppone a Re Cicerone” concluse Cesare, amareggiato, tornando
ad osservare fuori dalla finestra.
Quel pomeriggio, intorno alle
14.20
“Cesare,
abbiamo un problema!”
L’entrata
irrequieta di Dante interruppe il discorso tra Cesare e Beth. Era passata poco
meno di un’ora dalla pausa pranzo, e i due stavano discutendo riguardo quello
che era successo durante la colazione. Quando vide il volto visibilmente scosso
del nuovo entrato, il padrone del bar non riuscì a non preoccuparsi.
“Che problema?” gli chiese, alzandosi dalla sedia e avvicinandosi allo
scrittore. “Avanti, Dante, parla, che sta succedendo?”
“È
il gazebo” rispose lui. “Si sentono dei rumori strani, non lo so, come stesse iniziando a crollare.”
“Oh
cazzo, MARGARET!”
Cesare
corse fuori come una furia, bofonchiando tra sé e
sé un “io lo sapevo che non era sicuro lì fuori, lo avevo detto, cazzo”.
Arrivato all’ingresso del bar, vide che sotto il gazebo si erano accalcate
tutte le persone, compresi Lancelot e Cicerone. Si avvicinò a quest’ultimo,
chiedendogli di spiegargli cosa stesse succedendo.
“Ma
non lo so,” gli rispose lui, “siamo arrivati qui e già si sentivano questi
rumori inquietanti.” Indicò uno dei pilastri del gazebo, che sembrava
tremolante ed emetteva suoni come se fosse in procinto di rompersi. “Ecco,
visto?” gli disse. “È da un paio di minuti che fa così.”
“Un
paio di minuti?” lo apostrofò Cesare, furibondo. “E me lo venite a dire solo
ORA?”
Non
diede al giovane il tempo di rispondere che già stava cercando di capire cosa
fare. Il panico si iniziò a impossessare di lui. Si guardò attorno, con i pensieri che giravano nella testa come scheggie impazzite. Magari era il peso dell'acqua che aveva iniziato a gravare eccessivamente sul gazebo, oppure il pilastro del gazebo era stato infarcito dall'acqua, iniziando a marcire. Provò a toccare il pilastro, solo
per notare che era completamente asciutto, e che anche l’altro albero adesso iniziava a vibrare sinistramente. Pochi istanti e una parte del gazebo iniziò a
cedere, facendo un rumore infernale.
“Tiratemi
fuori di qui!” iniziò ad urlare Margaret, spaventata da quello che stava
succedendo. Cesare iniziò a sentirsi sotto pressione, mentre gli altri abitanti
del bar gli urlavano di fare qualcosa, di muoversi. Si guardò attorno e
finalmente notò la spranga, la stessa che stava per usare il secondo giorno proprio per
aprire il furgone. Senza pensarci su troppo, in preda al panico, la afferrò con forza e si avvicinò
alla maniglia, dando un primo, vigoroso colpo. Stava per colpirlo di nuovo,
quando la sua mano fu trattenuta da qualcuno.
“Cicerone,
cosa cazzo fai?! LASCIAMI IMMEDIATAMENTE, imbecille, abbiamo poco tempo!”
“Bada
a come parli, Cesare!” gli rispose a tono il giovane, guardandolo rabbioso
negli occhi. “Ragiona, cosa pensi di ottenere con quella spranga? Se
rompi la serratura dopo non riusciamo più a tirarla fuori!”
“Ah,
bene, improvvisamente te ne importa qualcosa! E che alternative
avremmo, sentiamo.”
“Cesare,
abbiamo le chiavi” si intromise Dante, mostrandogliele. “Erano nel tuo ufficio,
pensav-”
“Quello
che pensi ce lo dirai dopo!” lo interruppe malamente Marley, strappandogliele
di mano. Le infilò velocemente nella serratura e provò a girare la maniglia,
che dava forte resistenza.
“Avanti,
muoviti!” gli disse Cesare, inquieto. “Non abbiamo tempo da perdere.”
“Ci
sto provando, non vedi? Sembra bloccata!”
A sentire quelle parole, Cesare si sentì gelare il sangue, pensando a quanto aveva detto poco prima Cicerone. Rimase ad osservare attonito Marley che provava ad
aprire la porta, con l’aiuto di Cicerone e Dante. Dopo secondi che sembravano
ore, si sentì finalmente un accenno di movimento. Diedero un altro forte
strattone alla maniglia che finalmente cedette, permettendo a Margaret di
fiondarsi fuori dal furgone, rovinando a terra con un tonfo. Sembrava
particolarmente provata. Cesare tentò di darle una mano ad alzarsi, ma lei lo
allontanò, correndo via dal gazebo zoppicando. Tutti quanti seguirono il suo
esempio, lasciando l’esterno del bar completamente deserto, con i suoi rumori
inquietanti.
Margaret
si mise a sedere su uno sgabello, vicino al bancone. Il volto, pallido,
palesava il suo stato di shock.
“Maggie!” esclamò Cesare, avvicinandosi visibilmente preoccupato.
“Va tutto bene?”
“No,
Cesare, non va affatto bene” gli rispose lei, alzandosi adirata. “Come credi che possa andare?! Mi avete
lasciato lì fuori e ho rischiato di morire, per Dio! Anzi, TU mi hai mandato lì
fuori, proprio tu! E perché? Perché non mi hai voluto ascoltare, perché non hai voluto fidarti, e tu mi conosci Cesare. MI CONOSCI, per Dio, sai benissimo che non sono il tipo che inventa
scuse, ma niente. Mi avete chiusa lì fuori, sotto la pioggia, come un pariah. E, come se non bastasse stavi rischiando di
bloccarmi lì dentro, perché non sei riuscito
per UNA VOLTA a mantenere il sangue freddo e comportarti da uomo! Quindi no,
Cesare, risparmiami le scuse, risparmiami le spiegazioni, non me ne frega un
accidente. Non ho intenzione di parlare con un senza palle che non riesce
neanche a gestire una decina di persone!”
Si
alzò furibonda, dirigendosi verso le scale, urlando insulti contro tutti e
ritirandosi al piano di sopra. Le persone del bar rimasero ad osservarla, con
un’espressione attonita dipinta sul volto. Sapevano che in fondo erano tutti
quanti responsabili di quell’incidente, ma l’idea che fosse necessario per il
bene comune continuava a serpeggiare. Rimasero in silenzio per qualche minuto, un
silenzio interrotto dalle parole di Lancelot, che attirarono l’attenzione di
tutti.
“Per
quanto mi dispiaccia ammetterlo, purtroppo temo che Margaret non abbia tutti i
torti. Penso che la situazione ci stia a poco a poco sfuggendo di mano. Forse è
veramente il caso di cambiare qualcosa.”
“Che
cosa intendi?” gli chiese Cesare, confuso da quella questione.
“Lancelot
ha ragione,” continuò Cicerone, senza considerare la sua domanda, “è evidente
che qualcosa non sta funzionando. Visto come si stanno evolvendo le cose, forse dovremmo affidarci a qualcuno forse un po' meno coinvolto, più freddo.”
“Esattamente. Non sappiamo quanto tempo ancora dovremo rimanere qui sotto, e credo che abbiamo bisogno che chi ci guidi sia in grado di prendere decisioni difficili, sul momento.”
“Perché
non ci pensi tu?” suggerì Madeleine, timidamente. Lancelot le sorrise
imbarazzato.
“Io?
Nah, non credo proprio di essere in grado di sopportare la pressione che-”
“Aspettate un secondo” lo interruppe Cesare. “Che discorsi sono questi? QUESTO È IL MIO BAR, MALEDIZIONE! Vi ho accolti qui, dato da mangiare, un posto dove stare e di tutta risposta mi volete fare le scarpe? E' questo il modo di ringraziarmi? Non credete di stare
abusando della mia pazienza?”
“Questo
non è soltanto il tuo bar adesso!” gli rispose Cicerone, infastidito dal suo
atteggiamento. “Ci siamo dentro tutti, purtroppo, e non possiamo ragionare in questo modo. Dobbiamo pensare al bene di tutti, a come gestire la situazione nel migliore dei modi, e la realtà è che in questo momento è necessario fare un cambio di rotta. Devi farti da parte, Cesare, mi dispiace.”
Si
sentì un mormorio proveniente dal gruppo di persone. “Ha ragione” sussurrò
qualcuno, altri guardavano Cesare con uno sguardo insicuro, come a voler dire
che erano dispiaciuti. Il proprietario del bar non ci vide più.
“Sapete cosa? Fate quello che cazzo volete. Io vado fuori, non voglio ascoltare una parola di più da voi serpi.” Si allontanò ad ampi passi, spingendo bruscamente
le persone e uscendo sotto il gazebo.
Erano passati pochi minuti, osservò, e in quel poco tempo tutta la
parte anteriore del riparo era crollata, impedendo del tutto il passaggio
verso il furgone. Un senso di avvilimento e angoscia inizio a montargli dentro di fronte a quello spettacolo, e riuscì solo ad appoggiarsi al muro del bar, scivolando lentamente a terra, affranto.
Dopo un’oretta sentì un rumore di passi dietro di sé. Si girò e
vide Beth, il volto sconfortato, che si avvicinava lentamente. Gli
disse che Cicerone era stato scelto come leader, che aveva tentato in tutti i
modi di difenderlo, ma che non c’era stato nulla da fare. Per tutta risposta
Cesare le fece cenno di non continuare, dicendole che andava bene così.
Rimasero qualche secondo in silenzio, lì fuori, ad osservare il disastro che
era avvenuto.
“Ti
ricordi com’era prima?” le disse poi, con la voce spezzata. “La mattina presto aprivamo il bar, mettendo i
cornetti nella vetrina, mentre fuori dal bar, a qualsiasi ora del giorno, c’erano sempre quei teppisti che giocavano a calcio, urlando come dei forsennati. I clienti erano sempre educati, e c’era sempre modo di
scambiare quattro chiacchiere con qualcuno di loro. Sembrava quasi una famiglia. Era tutto così… tranquillo, a volte noioso, ma quel senso di stabilità era confortante, come se avessi un posto nel mondo. E
ora guarda. Gente che si urla in faccia, regole manco fossimo in carcere, addirittura mi tolgono il bar dalle mani perché, a quanto
pare, non sono adatto a gestirlo. Il mio bar, capisci? E poi il gazebo crollato sotto i colpi della
pioggia. Margaret...Margaret a quanto pare mi odia.”
Si
girò nuovamente verso Beth, il volto solcato dalle lacrime. “Che cosa abbiamo
sbagliato, Elizabeth?” le chiese, lo sguardo intristito. “Che cosa possiamo
fare?”
Quella sera, intorno alle
21.25
Cesare
versò gli ultimi due bicchieri, lasciando la bottiglia vuota sulla scrivania, e
ritornò di fronte alla finestra. Era calato nuovamente il silenzio, e l’aria
sembrava essersi fatta particolarmente pesante nella stanza. Osservando il
riflesso della ragazza nel vetro notò che passava nervosamente le dita sul
bicchiere.
Alla
fine Beth decise di parlare.
“Cesare,”
esordì, interrompendosi nuovamente, “volevo soltanto dirti di nuovo che mi
dispiace. Te l’ho detto, ci ho provato in tutti i modi a farli ragionare. Gli
ho ricordato dell’ospitalità che avevi offerto loro, che siamo tutti tuoi
debitori e che, in fondo, hai tenuto sotto controllo la situazione fino ad ora,
ma non hanno voluto darmi retta. Anzi, mi hanno chiesto di farmi da parte.
Essendo tua amica, a quanto pare, non sono affidabile.”
“Lo
so, Beth, tranquilla. Lascia stare” le disse lui dolcemente. “Sai, ci ho riflettuto un po’ stasera, e ti devo
dire la verità? Forse è una liberazione.”
“Che
intendi?” gli chiese lei, confusa dalle sue parole. Cesare si girò,
appoggiandosi sulla scrivania e guardandola negli occhi.
“Da
quando tutto questo è iniziato non ho mai potuto avere veramente paura. Ti
ricordi quando Tony è morto, o quando la radio dava le prime notizie, o anche
stamattina, quando tutto sembrava andare a puttane? Tutti potevano permettersi
di perdere la calma, di sfogarsi, tutti tranne me. Eppure ho anche io persone
lì fuori di cui non ho notizie da una settimana. Io ho visto un amico morire
davanti ai miei occhi, non loro. Ma questo è il mio bar, e la responsabilità di
mantenere l’ordine era mia. Quindi dovevo mantenere il controllo, soffocare le paure, fare buon viso a cattivo gioco, perché quelle persone
lì fuori dipendevano da me. Beh, ora sono come tutti gli altri. Posso
finalmente smettere di fingere, smettere di essere forte. Quindi sì, mi sono
tolto un peso. La responsabilità di dover tenere tutto a bada è soffocante,
Beth, e adesso la patata bollente è passata a Cicerone. Vedremo se riuscirà a
sopportare il peso della corona-”
Le
parole di Cesare vennero interrotte dal suono di una mano che bussava. Senza
aspettare risposta, Cicerone entrò dentro, bisbigliando a Marley e Adam di
aspettarlo lì fuori. Si avvicinò al padrone del bar, osservandolo spavaldo.
“Mi
dispiace interrompere la discussione, Cesare,” disse, sorridendogli, “ma le
persone qua fuori vorrebbero che liberassi il tuo ufficio. Volevo lasciarti la
notte per sgomberare, ma a quanto pare insistono perché tu dorma fuori,
adesso.”
Cesare
lo fulminò con lo sguardo, avvicinandosi minacciosamente.
“Ma
stiamo scherzando?!” esplose, facendosi rosso in viso. “Non credi che si sta
passando il segno adesso?”
“Te
l’ho detto” gli rispose lui, freddamente. “Non è stata un’idea mia. Penso che
gli altri vogliano vedere qualcosa cambiare fin da subito e, sinceramente, non
voglio deluderli. Mi dispiace, Cesare.”
Le
parole del giovane lasciarono Cesare amareggiato. Per un istante pensò di
uscire fuori dalla stanza, di discutere apertamente con quegli ingrati che
stavano là fuori, ma l’idea si spense quasi immediatamente. Stava capendo che tutti, lì fuori, si erano lasciati manovrare dalla paura e
dal modo di fare di Cicerone, e sapeva che uscire e dare di matto sarebbe
servito a poco.
“Facciamo
così” disse quindi Cicerone, avvicinandosi. “Se preferisci possiamo uscire e
discutere con tutti quanti dell’intera questione, compresa quella bottiglia che
vedo sul tavolo. Lascio a te la scelta.”
Il
proprietario del bar lo osservò attonito, non sapendo cosa dire. Beth provò a
dire qualcosa, ma Cesare la fermò prontamente, sussurandole di lasciar stare.
“Va
bene, Cicerone,” gli disse, sospirando, “come dici tu. Usciamo, Beth.”
La
ragazza sembrava titubante, ma, vedendo Cesare che varcava la porta, alla fine
decise di muoversi, lanciando uno sguardo di odio a Marley che le sorrideva
imbarazzato. Seguì Cesare fino all’esterno del bar, ignorando gli sguardi
curiosi delle persone ancora intente a mangiare. Una volta fuori, Cesare si
sentì soffocare dalla frustrazione. Gli occhi si arrossarono, e sentiva il bisogno
compulsivo di affondare le unghie nel volto. Era sconvolto, e Beth se ne
accorse.
“Lo
so che è dura, Cesare,” disse lei, poggiandogli una mano sulla spalla. “Vorrei poter dire qualcosa di utile, ma-”
Cesare
interruppe la donna farfugliando parole che Beth non riuscì a capire. La
ragazza si avvicinò, chiedendogli di ripetere cosa avesse detto, e lui si
sollevò, guardandola dritta negli occhi.
“La
cocaina di Tony, Beth” gli disse quindi, col tono basso. “La cocaina è nascosta
nel mio ufficio.”
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